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Azzurri, al Sei Nazioni tanto giovane… Troppo?

Da Carlo Gobbi 01/02/2018

Conor O’Shea vara una nazionale con appena tre veterani: Ghiraldini, Parisse e Zanni. E proprio contro l’unica squadra che non abbiamo mai battuto ai Championship e che può fronteggiare gli All Blacks!

Febbraio. Ritorna il Sei Nazioni. Il torneo più famoso del mondo ovale. Ma che interessa sempre più anche chi non è strettamente neofita del movimento. L’Italia ne fa parte dal 2000, dopo l’ammissione del 1998, con tanto di partite ufficiali di acclimatamento, così, per assaggiare la minestra che poi ci sarebbe toccata di là a venire. Diciotto partecipazioni, ben sette i cucchiai di legno. Cioè l’ultimo posto con tutte sconfitte. E naturalmente nessuna vittoria nell’albo d’oro.
   Speranze, ottimismo, aspettative, timori per questo nuovo torneo che si apre. Un po’ di tutto. Conor O’Shea, il tecnico irlandese da due stagioni alla guida della nostra nazionale, ora a capo di un robusto “squadron team” di allenatori per ogni settore, predica ottimismo. La stampa è lì, pugnal tra i denti, in trincea pronta a celebrare il trionfo, anche se per una sola vittoria, meglio che niente, ma altrettanto rapida nel crucifige per il consueto disastro. Il pubblico, parte di addetti ai lavori, cioè giocatori dirigenti tecnici arbitri, che spera di evitare brutte figure. O il semplice pubblico che chiede soltanto di potersi divertire, mescolandosi con i fans stranieri cantando, con una pinta di birra in mano.
   E’ una nazionale rinnovatissima quella che domenica aprirà le sfide allo stadio Olimpico di Roma contro la regina Inghilterra. Unica squadra del Championship (questa la denominazione ufficiale del torneo oltre Manica), fin qui mai sconfitta dai nostri azzurri. Rinnovata nei ranghi, nei nomi, nelle età, nelle facce, financo nei caps, cioè nelle presenze. In ottobre a Milano, pieno centro, due passi dal Duomo, eravamo alla presentazione dei tre test-match di novembre contro Figi, Argentina e Sudafrica. Ci fece piacere salutare Leonardo Ghiraldini, tallonatore padovano: “Meno male che troviamo ancora uno che ci conosce…”. Siamo in pensione da ormai quasi dodici anni. Logico e comprensibile che, mentre noi si invecchiava fatalmente, la nazionale… si svecchiava. Così oggi, della nostra epoca, che non fu certo breve, rimangono solo tre veterani: con Ghiraldini, c’è anche capitan Parisse, il nostro monumento, e il friulano Zanni, al rientro dopo un anno di sosta forzata per infortunio. Su 31 convocati, fate voi. Aria nuova in cucina.
   Mercoledì una intelligente e accurata anticipazione apparsa sulla Gazzetta a firma Nicola Melillo, ha fornito ai lettori l’esatta anamnesi di questa nuovissima nazionale. Dove sono ben 14 (quattordici!) gli esordienti nel Sei Nazioni. Ma anche altri sei non hanno sei caps alle spalle (cioè una miseria con i ritmi di oggi). E tredici di loro totalizzano meno di 52 presenze. Sulla formazione annunciata, saranno ben sette gli azzurri che entreranno per la prima volta nel catino ribollente d’entusiasmo, allegria e fiducia dell’Olimpico. E contro il comprensibile tremore dell’esordio di fronte a cotanto pubblico, attesi 60mila paganti, roba che il calcio se li sogna, affronta la corazzata Inghilterra, reduce da un percorso quasi netto. Sugli ultimi 23 match, ben ventidue vittorie. I polsi tremano? A noi no, veci del mestiere. Però seduti in poltrona. Sperem neanche ai nostri ragazzi.
   O’Shea in due anni ha girato molto, su e giù per lo scarpone, per conoscere la realtà vero del nostro rugby. Ha avuto il merito di sforzarsi di capire. Cosa? Che questo è il Paese del calcio. Che il rugby interessa giusto quando parte il Sei Nazioni. Ma che i Tg ti regalano un ritorno sulla partita soltanto se vinci. Così i quotidiani, anche sportivi. In caso di vittoria, il giorno dopo ci sarà un ritorno. Altrimenti… Nisba. E vai col calcio, che va bene per tutte le stagioni. Conor ha fatto di più. Si è sforzato di imparare passabilmente la nostra lingua, venendo pure ad abitare con la famiglia sul lago di Garda, a Desenzano. Ha visionato gruppi, squadre giovani a centinaia. Ha aperto le porte della nazionale a tanti ragazzi nuovi. Lui predica fiducia e ottimismo. Insiste sui giovani speciali, come Licata, Giammarioli, Castello e tanti altri. Intuisce che tutti loro hanno solo voglia di giocare, di meritarsi una chance, di provare a scendere in campo per suonarle agli avversari. Non promette vittorie nel Sei Nazioni, il coach irlandese, come a suo tempo si sbilanciarono Kirwan e Brunel, per fare fantasia. Lui vuole migliorare il gioco, rendere la nazionale competitiva sul piano fisico anche per gli ultimi fatali 20’ di gioco. Quelli che in passato ci hanno troppo spesso penalizzato. Laddove abbiamo subito nel finale robuste tariffe quando fisico, coraggio, energie erano ormai al lumicino. Nel suo staff, anche un allenatore sudafricano che cura il lato fisico per coprire quei famosi ultimi venti minuti. Poi, se da questo folto gruppo di giovani speranze, rinforzato dai tre veterani e da qualche naturalizzato, uscirà una squadra all’altezza della fama del torneo, aspettiamo fiduciosi il via alle ostilità.
   Abbiamo attraversato oltre quaranta anni di rugby giocato dalle tribune stampa del mondo ovale. Assistito a 140 incontri della nazionale. Vissuto episodi, momenti, trasferte, emozioni con la nazionale di Marco Bollesan e di Georges Coste, di Fourcade e Mallett, di Johnstone e Kirwan. Ricordiamo con simpatia grandi giocatori come Giovanelli e Vaccari, i due fratelli Cuttitta, Massimo e Marcello, Properzi e Presutti, Modonesi e Stoica, Fedrigo e Innocenti, i fratelli Francescato (Nello, Rino, Bruno, Ivan), Fabrizio e Fabio Gaetaniello, Bonetti e Salsi, Dominguez e Troncon, Bortolami e Castrogiovanni, Mauro e Mirco Bergamasco, e tanti tanti altri da non poterli nominare tutti. Ma sempre abbiamo ben presente che in una squadra di rugby, davvero sono necessari i giovani innesti. Ma ancor più lo sono i veterani, i veci. Quando i giovani entrano in campo, guardano al capitano, alla vecchia guardia. Tocca a questi dare l’esempio. Basterà Parisse a suonare la carica? C’è un drappello di ventenni o giù di lì in caccia di gloria. Ebbene, diamogli fiducia. E diamola a Conor O’Shea, che sta lavorando per lasciarci la nazionale del futuro. Senza adontarci se i maestri inglesi, unici nel globo in questo momento a poter rivaleggiare alla pari con i fantastici All Blacks neozelandesi, ci  infliggeranno la tariffa all’Olimpico. Per crescere e imparare, anche le sconfitte sono salutari. Sì è vero, di batoste ne abbiamo subite tante in questi 18 Championship. Però forse questa nuova “quindicina” ci aprirà rinnovate speranze. Forza ragazzi. Come si urlava alla Rugby Parma prima del via: “Alla boia…!”.
Carlo Gobbi
Tags: carlo gobbi, italia, rugby, sei nazioni

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Nota sull’autore: Carlo Gobbi

È il giornalista più poliedrico del panorama nazionale. Oltre a 7 Olimpiadi, 6 Mondiali e 15 Europei di pallavolo, e 139 test match di rugby, ha seguito oltre 20 Mondiali ed altrettanti Europei di ginnastica, judo, hockey, ghiaccio, pallamano, pesi, tiro.

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