Chris Boardman, inglese, primatista dell’ora, sentenziò: “E’ roba da circo”. Beppe Saronni, campione del mondo su strada, la etichettò: “Ciclocross”. Bernard Hinault, bretone, cinque vittorie al Tour de France, tre al Giro d’Italia e due alla Vuelta di Spagna, sosteneva che fosse “spazzatura”, tant’è vero che non la voleva correre, poi sul bus che lo portava alla partenza sdrammatizzò la tensione guardando con i compagni di squadra un film porno, la corse, la vinse, e fieramente confermò: “Paris-Roubaix est une connerie”, una cavolata. Theo De Rooy, olandese, la disputò da protagonista, tra scatti e fughe, non riuscì a salire sul podio, quindi, intervistato, sentenziò: “Questa corsa è solo un mucchio di merda”. L’intervistatore, imbarazzato, non trovò altro da chiedergli se l’avrebbe mai più corsa. E De Rooy esclamò: “Certo, è la corsa più bella del mondo”.
La Parigi-Roubaix è la corsa più bella del mondo. E’ la più speciale e terribile, affascinante e terrificante, seducente e insopportabile, cioè tutto e il contrario di tutto, polvere o fango, paleolitica e tecnologica, guerra del fuoco e di industrie, così disumana da elevare l’umanità. E’, per la sua natura archeologica, viscosa, infiammata, irta, rossa di porfido e nera di carbone, forestale e minerale, vegetale e metallurgica. E’ originale come un peccato, ed è fortunatamente unica, e questo lo si era capito da subito, al primo pronti-via. Fu Maurice Garin, valdostano, terzo nella prima edizione (1896), primo nella seconda (1897) e nella terza (1898), a balbettare “les heures chaudes de l’Enfer du Nord”, le ore calde dell’inferno del nord. Lui, di calore e di inferno, e anche di nord, se ne intendeva: faceva lo spazzacamino.
La Parigi-Roubaix è, sulla mappa, dai 52 metri di Compiègne-Choisy-au-Bac ai 31 di Roubaix, una corsa dannatamente piatta. Dislivello zero, o quasi. Come la Milano-Vignola, che non c’è più; come una tappa del Giro del Burkina Faso, che non si sa neanche che ci sia; come 635 giri del velodromo Vigorelli, che sta cercando di resuscitare, ma pedalando alla corda, in basso. Però, se si contasse – un lavoro infinito e impossibile – il dislivello fra una pietra e l’altra nei 55 km dei 29 settori di pavé, verrebbe fuori un’altimetria dolomitica. “Les Amis de Paris-Roubaix”, una sorta di Greenpeace del pavé, 250 soci (dai 20 euro per quelli semplici agli 80 per quelli benefattori), hanno un comandamento drastico: “Sans pavés pas de course”, niente corse senza pavé. La missione di questi angeli dell’Inferno del Nord è custodire e sistemare, restaurare, ripulire le sacre pietre, blocchi di basalto di una quindicina di chili, erosi dal tempo e dal tempaccio. Uno di questi blocchi, attaccato a una base di legno, è l’ambitissimo trofeo destinato al vincitore. Pochi, tutti sommati, gli italiani vincitori: da Giulio Rossi, parmense di Boccolo dei Tassi emigrato in Francia e diventato Jules Rossi (1937) alla doppietta dei fratelli Coppi (Serse nel 1949, in un incredibile ex aequo causa errore di percorso, e Fausto nel 1950), dall’assolo di Felice Gimondi (1966) alla tripletta di Francesco Moser (1978-1979-1980), dall’uno-due di Franco Ballerini (1995-1998) all’ultimo hurrah di Andrea Tafi (1999). Una vittoria qui cambia la vita, le dà un senso, un nome-e-cognome scolpiti nella storia e nella geografia.
Il fascino della Parigi-Roubaix c’è, e c’è sempre di più. I sentieri, le mulattiere, le carrozzabili vengono contate alla rovescia, dal numero 29 al numero 1, come una liberazione. Il primo tratto dopo 97 km, da Troisvilles a Inchy, 2,2 km, l’ultimo all’ultimo chilometro, già nel cuore della città d’arrivo, in uno spazio dedicato all’”enfant du pays” Charles Crupelandt (nacque e morì a Roubaix, 1886-1955, vinse la Roubaix nel 1912 e 1914, fu ribattezzato “il Toro del Nord”), 300 metri che spesso sanno già di trionfo. Il più breve è proprio l’ultimo, i più lunghi sono il terzo, da Quiévy a Saint-Python, e il tredicesimo, da Hornaing a Wandignies, 3700 metri. Il più spaventoso, e spaventevole, è quello della Foresta di Arenberg, dopo 161,5 km, lungo 2400 metri. Ufficialmente si chiama “Drève des boules d’Hérin”, il passaggio delle betulle di Hérin. E’ una strada nel bosco. Da una parte la foresta, poi un fossato con acqua stagna, poi una striscia di terra e polvere grigia e avanzi di miniera, poi una transenna, poi la strada in pavé, poi una zona di terra sottratta alla foresta e smossa da una scavatrice (così chi cade, si fa meno male), poi un altro fossato, poi ancora la foresta. La chiamano anche “la trincea”. Per quel senso di strada militare e di gogna militaresca che la contraddistinguono.
Per entrare nella foresta, il gruppo disputa una volata, complice anche una leggera discesa, a 70 all’ora. Per guadagnare la migliore posizione. Chi rimane indietro, è tagliato fuori. Come rimanere indietro di un passo in un tappone alpino. Due chilometri e mezzo affrontati a 70 all’ora e poi volati a 50, è – garantiscono – un’esperienza traumatizzante, traumatica, a volte ortopedica. E’ come subire un’eterna scossa di terremoto al sesto grado della scala Mercalli. E’ come chiudersi in una lavatrice, saltare prelavaggio e lavaggio, e passare direttamente alla centrifuga. Quando riemergi dalla foresta di Arenberg, è come se fossi uscito da un corpo a corpo con Mike Tyson. Ubriaco di colpi. Sfiatato. Sfinito.
Il bello e il brutto della Roubaix è proprio il pavé. Amore e odio, mai spinti così all’eccesso. Adesso ogni settore è dedicato a un campione, come succede sulle salite, dall’Alpe d’Huez allo Zoncolan. E dedicate ai campioni sono anche le docce del Velo Club Roubaix, una costruzione attigua al velodromo. Una volta c’erano solo quelle. Loculi nudi, celle misere. Muri scabrosi, arredi inesistenti. Lì i corridori si spogliano e con un filo d’acqua calda provano a tornare a questo mondo.