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La testimonianza

Gli ultimi e i primi, episodi surreali e resurrezione. Cioé, il ciclismo 

Da Claudio Gregori 10/06/2018

“Spingi me sennò bestemmio. Storie di ultimi, maglie nere, lanterne rosse e fanalini di coda” e “La quinta tappa” ci raccontano la magia di uno sport sempre ricco di storie

Gli ultimi e il primo. Le maglie nere e Nibali. Marco Pastonesi li racconta in due libri diversi. Il primo, edito da Ediciclo, “Spingi me sennò bestemmio. Storie di ultimi, maglie nere, lanterne rosse e fanalini di coda”, è bello e perfettamente in linea con la vocazione dell’autore, abituato a guardare le corse dal basso. Il secondo, “La quinta tappa”, edito da Rizzoli Lizard, è, invece, del tutto nuovo e stupefacente e parla di un vincitore.
“Spingi me sennò bestemmio” è un mosaico di episodi surreali. “La Madonna? Lei appare spesso in cima alle salite, qualche volta anche più in basso”, assicura Giuseppe Fonzi, maglia nera degli ultimi due Giri d’Italia. “Spingi me sennò bestemmio”, minaccia Zandegù, quando ultimo su una salita, vede l’unico spettatore, un prete, prepararsi a spingere il penultimo, che lo precede di pochi metri. L’autore si sbizzarrisce con sense of humour e con attenzione solidale.
Se il gruppo è uno sciame, gli ultimi sono le api operaie. Pastonesi le riscatta. Dà loro non solo un volto, ma anche il sorriso, il pensiero, il dono dell’arguzia e, a volte, della sapienza. “Il ciclismo è musica”, “La corsa è concerto”, dichiara Marco Ranieri, che ha studiato violoncello.
Malabrocca è L’Einstein del gruppo. Zanoni, ultimo a portare la maglia nera (1979), bergamasco di Nembro, è Nembro Kid. Ronchiato, col suo nome, Màrico, fa sorridere i telecronisti colombiani, a cui ricorda maricón, in spagnolo gay. John Clarey si spruzza i mustacchi “con un fertilizzante per rose per incrementare la forza”. E Nane, unico corridore, dopo Alfredo Binda, pagato per non partecipare al Giro (1951), è capace, con quei soldi, di fondare l’impero-Pinarello.
Sono quaranta personaggi. In verità anche lillipuziani di un giorno solo come Merckx, Bettini, Bugno, Scarponi, Malori. La meravigliosa storia di Giovanni Gerbi, il mitico Diavolo Rosso, fa da tessuto connettivo.
Non c’è Vincenzo Nibali, che pure arrivò ultimo in una Liegi-Bastogne-Liegi. Il motivo è semplice: Nibali è il protagonista del secondo libro, “La quinta tappa”, che ha la prefazione di Paolo Condò. È lo straordinario racconto a due voci – Nibali e Pastonesi – di un momento della vita del corridore. Una tappa del Tour, la Ypres-Arenberg Porte du Hinaut, del 9 luglio 2014, sul pavé della Roubaix. Nibali non la vinse: finì terzo. Quel Tour fu una favola. Nibali lo conquistò, s’impose in 4 tappe e portò la maglia gialla per 19 giorni. Perché, allora, questa scelta? “Si vince anche senza arrivare primi”. In queste sei parole c’è la chiave.
Quel giorno non ci furono solo il ritiro di Froome e la crisi di Contador. Fu la tappa dell’altruismo e del coraggio. La vittoria della bella filosofia che al successo antepone il valore.
Questa non è solo una favola sportiva, ma un apologo. Ha finalità gnomiche. Proprio come le favole di Esopo, Fedro, La Fontaine. Al posto del leone, della volpe, della formica, del corvo o della cicala c’è l’unico animale con le ruote, il ciclista. Nibali ci insegna l’arte di ricominciare.
Il suo racconto è allegorico, educativo. Anche quando narra il sopruso del padre. “Il Lupo aveva segato tutti e tre i tubi del triangolo del telaio. Mi ribellai, mi liberai, gli urlai: “Non sei più mio padre”. / “Prova a fare ancora a botte a scuola e vedrai che cos’altro ti succederà” mi minacciò…”.
“Non c’era altro da fare che rigare diritto, a casa e a scuola. Finché un giorno mio padre prese me e quello che rimaneva della bici, andammo da un suo amico fabbro, quello si mise la maschera e con la fiamma ossidrica saldò il telaio. La bici era risorta”.
Ecco questo è un libro che canta la bellezza della risurrezione. Nibali esce ingigantito da queste pagine. Non come un’icona preziosa e senza vita, ma come un uomo a tre dimensioni, vivo e proteso verso nuovi traguardi. Che più della gloria conosce il dolore e la speranza, la passione e l’amore. “La vita è come andare in bicicletta, se vuoi stare in equilibrio devi pedalare”. E Nibali, seguendo il consiglio di Einstein, pedala.
Marco Pastonesi, ultimo vincitore del Bancarella Sport, è tacitiano: “In una giornata asciutta, questa corsa è polvere; in una giornata bagnata, è fango; in una giornata di ciclismo, è – sempre e comunque – guerra”. Di solito trasgressivo nei temi, nei titoli e nello stile, stavolta è edificante. E regala un autentico capolavoro.
Claudio Gregori
STRALCI DEL LIBRO “Spingi me sennò bestemmio”…….
(dall’introduzione)
Mondiali di ciclismo a San Cristobal, in Venezuela, nelle Ande. Era il 1977. Professionisti su strada, duecentocinquantacinque chilometri sotto il diluvio, primo Francesco Moser, trentatreesimo e ultimo degli ottantanove partiti Eddy Merckx. Eppure il belga era il più forte: non di quel giorno, ma di sempre. A regalargli il titolo onorifico di Cannibale, era stata la figlia dodicenne di un corridore francese. Il padre, Christian Raymond, compagno di squadra, anzi, gregario di Merckx nella Peugeot del 1972, le stava raccontando di come il suo capitano fosse potente, esplosivo, resistente, tanto da non lasciare vincere nessun altro. Rimanevano solo le briciole. Vero: fra il 1970 e il 1973 Eddy conquistò più di un terzo delle corse cui aveva partecipato. Fu allora che la ragazzina sbottò: “Ma papà, è un cannibale”. Quella domenica 4 settembre 1977 Merckx il Cannibale alimentò la sua fame, valorizzò la sua fama e impreziosì la sua grandezza proprio con quell’ultimo posto. E davanti a lui c’era Raymond Poulidor, il “Poupou” beniamino di Francia, “l’eterno secondo”, anche stavolta nella stessa posizione di rincalzo, seppure a partire dal fondo. Quella domenica si era capovolto il mondo, si era ribaltata la storia.
Sono di parte. Sto dalla parte degli ultimi, perfino se solo quel giorno l’ultimo si chiama Eddy Merckx il Cannibale. Sto dalla parte di quelli lenti e spenti, di quelli seminati e dimenticati, di quelli persi e dispersi, di quelli che non vedono mai la testa della corsa e che ovviamente non vincono mai, di quelli che ma-chi-glielo-fa-fare e ma-pensa-te, di quei rivoluzionari che lottano contro il tempo massimo o di quei riformisti che confidano nell’allungamento del tempo massimo, di quelli che arrivano in fondo anche se proprio precisamente in fondo all’ordine d’arrivo o alla classifica generale. Sto dalla parte di chi pedala con le proprie gambe e con le proprie forze, anche se le forze sono in forse, e soprattutto quando sono comunque poche.
Lenta velocità o veloce lentezza, tutto è relativo, lo sosteneva anche Albert Einstein che, non a caso, fu illuminato dal concetto, dalla teoria, dal principio che tutto dipende dal sistema di riferimento mentre andava in bicicletta. L’Einstein del gruppo è stato Luigi Malabrocca, il Luisìn, piemontese di Tortona, poi pavese sul Ticino, allevatore di pesci e campione italiano di ciclocross, che inventò un nuovo modo di correre. Andava in fuga dietro al gruppo, entrava nei bar e non ne usciva più, si nascondeva nelle scarpate, nei fienili, nelle cantine. Una volta si tuffò in un pozzo, vuoto, ma un contadino sollevò il coperchio: “E allora?”. “Sto correndo il Giro d’Italia”, tentò di spiegargli. Poi risalì sulla bici e giunse al traguardo. Ultimo, ultimissimo. Maglia nera, nerissima. Era il suo forte, il suo fortissimo.
Ogni corsa ha il suo Malabrocca. L’ultima maglia nera, poi abolita, fu quella di Bruno Zanoni al Giro d’Italia del 1979. Bergamasco di Nembro: Nembro Kid. Invece lo chiamavano Zorro: perché sbrigava la formalità del foglio di partenza scarabocchiando una semplice Z. Sei anni da professionista, una vittoria (la tappa di Assisi al Giro del 1978), poi quella prodezza prima di traslocare a Laigueglia e dedicarsi a un hotel. “Caddi in una delle prime tappe, al sud. Non avevo più speranze di fare bella figura e pensai solo a salvare la pelle e portarla a casa. Navigavo nei bassifondi, mi ritrovai ultimo, mantenni quella posizione. Scoprii che mi garantiva qualche vantaggio: indossavo una maglia unica, la gente mi riconosceva, Adriano Dezan mi citava nelle telecronache, i giornalisti mi intervistavano alla partenza, anche perché certe volte, quando io arrivavo, loro stavano già finendo di scrivere l’articolo. E poi c’erano i soldi: all’ultimo in classifica andavano trentamila lire al giorno e un premio finale di cinquecentomila”. Zanoni si impegnò: a Milano arrivò centoundicesimo e ultimo, a tre ore e cinquanta secondi da Beppe Saronni, e rifilando undici minuti e otto secondi al suo più acerrimo rivale – per quanto compagno di squadra – nella lotta al basso, Angelo Tosoni, bresciano di Castenedolo (come Michele Dancelli), quattro anni da professionista, nessuna vittoria (ma s’ingozzava di traguardi volanti, e proprio in quel Giro conquistò il premio finale: una Fiat Ritmo), poi carpentiere. Per Zanoni fu il colpo della vita: “Dopo il Giro vennero i circuiti. Saronni e Moser ne corsero trentatré, io trentuno, due più di Gibì Baronchelli e addirittura venti più del mio capitano Roberto Visentini. E siccome a ogni circuito mi davano duecentocinquantamila lire, diventai ricco”. Niente più borracce di acqua ai capitani in corsa, ma bottiglie di minerale in camera ai clienti, sorrisi e consigli alla reception dell’albergo. Anche agli ultimi. Soprattutto agli ultimi. Avanti, c’è posto per tutti.
[…]

L’ultimo è il più debole, fragile, vulnerabile. L’ultimo è il più animale, vegetale, minerale. L’ultimo è il più generoso, solidale, umano. L’ultimo è il più colpito dalle punture delle vespe e dagli scontri con le moto, il più ostacolato dai passaggi a livello e dai greggi di pecore, il più bersagliato dai chiodi e dalle puntine. L’ultimo è il martire della malasorte e la vittima della sfortuna. L’ultimo è il più testone a tirare avanti e a spingere sempre. L’ultimo è il più genuino, autentico, vero. Smesso di lottare per gli altri, fra gli altri e con gli altri, comincia a farlo con sé e contro di sé. E da quel momento la sua corsa diventa autoesame e autocoscienza, autocertificazione e autostima, e “auto da fé”, cioè atto di fede. Spesso l’ultimo è anche il più onesto. E molto spesso l’ultimo, per puro e malinconico paradosso, è anche il primo: il primo a cedere e a mollare, il primo a staccarsi e a distaccarsi, il primo a entrare in crisi e a prendere una cotta, il primo a ritirarsi e ad abbandonare, il primo a salire sull’ammiraglia o sul camion-scopa, il primo a sollevare il numero dorsale dalla schiena, il primo a rifare le valigie e tornare a casa. Spesso è anche il più simpatico, e non solo nel ciclismo. La squadra tunisina di pentathlon moderno alle Olimpiade di Roma nel 1960, per esempio, ne combinò di incredibili. Prima con uno dei suoi atleti che, nel nuoto, stava affogando. Poi con un altro che, nel tiro con la pistola, sfiorò i giudici. Infine nella scherma: l’allenatore fingeva di ruotare tutti gli atleti sulla pedana, ma a combattere era uno solo, l’unico a saper usare il fioretto, sperando di farla franca nascosto dalla maschera. Ma fu scoperto.
*Marco Pastonesi presenterà i suoi libri il i15 giugno nella libreria Tralerighe di Conegliano (Treviso), il 25 nella libreria Capurro di Recco (Genova), il 26 nella libreria Falso Demetrio di Genova, il 27 nella libreria Liberi tutti di La Spezia, il 28 al Festival dell’andare a Viareggio.
Tags: ciclismo, libro, pastonesi

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Nota sull’autore: Claudio Gregori

Inviato in 12 Olimpiadi, 27 Giri d'Italia e 3 Tour, più svariati campionati del mondo: 5 di calcio, 4 di atletica, 10 di nuoto, 11 di sci, 9 di ciclismo, 2 di scherma, 1 di ginnastica. È stato testimone anche della Caduta del Muro.

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