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Sport di contatto

Italia a Cardiff, come farà ad evitare il Cucchiaio di Legno? Purtroppo non siamo da Sei Nazioni, e da rugby…

Da Carlo Gobbi 11/03/2018

Dodici anni fa ci eravamo illusi, ma le “onorevoli sconfitte” sono diventate disfatte. Colpa della tradizione, della scuola, della cultura calcistica, del serbatoio umano e dei media. E oggi in Galles prepariamoci a un’altra batosta, ahinoi!

E vai all’inseguimento dell’ennesimo annunciato temuto meritato…cucchiaio di legno. L’Italia ovale, al Millennium di Cardiff, si ritrova insieme a 85mila dragoni in maglia rossa, fra canti stupendi e birra a fiumi, e l’ennesima sconfitta di questa brutta serie per Conor O’Shea. Con l’inevitabile avvicinamento a quel deprecato trofeo alla rovescia, denominato anche “della vergogna”, che nel Sei Nazioni significa… tutte sconfitte (no ultimo posto, please). Non riusciamo a intuire come possa andare diversamente da una sconfitta. Fino allo scorso anno, si parlava sempre di..onorevole sconfitta. I ragazzi si battono, vanno benino, cedono, fisicamente e moralmente negli ultimi venti minuti e trac, arriva la tariffa. Ergo, il punteggio pesante, da quaranta punti in su.
   Quest’anno la marcia sembra diversa. Cambiata la musica. I ragazzi vengono travolti. A volte subito, nei primi 20’. A volte poco dopo, nella seconda metà del primo tempo. Ma si rifanno nel finale, quando gli avversari con la pancia piena di mete, si rilassano, allentano presa e tensione, ci concedono qualche svarione che ci porta in meta. E’ accaduto con gli inglesi, poi con gli irlandesi e i francesi. Brutto segnale per chi mastica rugby. L’avversario che ci stima e rispetta, a differenza del calcio che inscena la deprecabile odiosa melina, ci onora attaccandoci ancora per segnarci un’altra meta. Non significa maramaldeggiare. Vuol dire: perdete, siete sconfitti, ma vi siete battuti bene e noi cerchiamo di darvene un’altra per sottolineare il vostro valore.
    Ecco perché il rugby fatica a prendere piede in Italia. Questa mentalità la conoscono solo i rugbisti puri. Quelli che, per dirla alla Marco Bollesan, ci mettono la faccia. Gli altri, quelli ammorbati dal dio calcio, vero dittatore del Paese, non  capiscono questa lezione. Così addetti ai lavori, rugbisti di prima, seconda, terza generazione, lettori occasionali (quando trovano qualche pezzo di rugby da leggere sui quotidiani nazionali, cioè  raramente), i semplici appassionati disposti a seguire la nazionale all’estero, che rappresenta sempre una gran bella esperienza fuori porta senza i pericoli del calcio, si impalano alla ricerca di motivazioni, accuse, contro-accuse, processi. Per venire a capo di cosa? Che il rugby, purtroppo, non è sport per noi. E’ vero che in passato, lontano e anche recente, abbiamo presentato squadre di assoluto rispetto, valide sul piano fisico, della combattività, dell’entusiasmo, dell’aggressività, della forza morale, della capacità di affrontare a viso aperto avversari ben più forti di noi. Ma negli ultimi anni, con il disgregarsi di quella splendida formazione che ci aveva permesso un’entrata dignitosa e meritata nel Sei Nazioni, i risultati sono andati scemando. Le figuracce aumentando. Le tariffe pesante moltiplicandosi. Così oggi, che presentiamo tanti giovani nuovi, anche interessanti, forti, validi, promettenti, non riusciamo però a creare una squadra che riesca a reggere l’urto dei colossi ovali. Così stiamo a ripeterci che affrontiamo sempre i più forti e noi che siamo nella fascia di mezzo, nel ranking siamo scivolati al 14° posto e rischiamo scendere ancora più in giù, quando sfiorammo nel recente passato perfino l’ottava posizione, forzatamente le pigliamo.
   Colpe? Ma come si può parlare di colpe quando il Paese ignora una nazionale di rugby che affronta colossi nel Sei Nazioni. Basta una vittoria, due anni fa sugli Springboks sudafricani in fase ultra-calante a Firenze, per illuderci di essere sul tetto del mondo. A pranzo con quelli che contano. Per ripiombare subito nella nostra mediocrità alla prossima sconfitta. Ma quando vedi che al Sei Nazioni, i quotidiani dedicano spazi ridotti, miseri, insufficienti, ad eccezione di quelli di province interessate. O dei due giornali sportivi, che se ne ricordano giusto due giorni prima, per poi evitare un ritorno al gong del nuovo kappaò. O quando la televisione ignora sistematicamente gli azzurri, salvati solo dall’ottimo lavoro offerto da DMax e dai due super-telecronisti, Munari e Raimondi,  allora capisci che il rugby, da noi, non può sfondare.
   Il Millennium di Cardiff, tempio ovale sorto per la quarta coppa del mondo nel 1999, sul terreno del mitico glorioso Arm’s Park, rigurgiterà di entusiasmo. Al canto gaelico di “Land of my fathers”, inno dello sport  gallese, seguito dal vice “Bread of  heaven”. E i nostri ragazzi, in mezzo a questa frastornante devastante incessante bolgia rossa, dovranno affrontare i gallesi dei vari Davies e Williams. Per loro, l’Italia rappresenta un buon allenamento in vista delle partite vere, quelle che contano, in lingua inglese. Laddove ogni partita rappresenta la sfida della vita. E non si gioca soltanto una partita di rugby, ma si mette a confronto la storia di due-tre secoli indietro. Il rugby esisteva già nel diciottesimo secolo, quando gli italiani avevano alle spalle la terza guerra d’indipendenza e si stavano dirigendo verso Adua. Vi dice niente tutto ciò?
    Stasera sapremo la tariffa che ci avranno inflitto i gallesi. E meno male che le previsioni atmosferiche annunciano pioggia fitta come usa da quelle parti. Così il tetto dello stadio verrà chiuso. E Dio non vedrà “i dragoni andare in meta”. Ma soltanto gli 85mila presenti e i milioni alla tv. Non diamo colpa a O’Shea. Lui è bravo, serio, preparato, si è immerso nella nostra realtà, sta cercando di aiutarci. Ma i nostri eventuali piccoli progressi di questi venti anni al Sei Nazioni,  sono stati mangiati, cancellati, dilaniati, dai progressi enormi effettuati da quelle super-squadre. Dove perfino la Scozia, un tempo in crisi, economica e di talenti, ci ha sopravanzato con un intelligente lavoro di recupero sui giovani. Già perché, dopo il Galles, ci aspetta l’ultima illusione, la Scozia all’Olimpico. Ma questa Scozia sta facendo mirabilie. Non basteranno i 50mila tifosi annunciati  all’Olimpico, di cui almeno diecimila scozzesi, per superare il gap con una squadra che presenta un magnifico rugby spettacolo.
   Ma restiamo al Galles. Che si permette di tenere qualcuno dei suoi big di riserva, come Halfpenny e Biggar, estremo e apertura,  in attesa dell’ultimo scontro con la Francia. Tanto per loro, l’Italia rappresenta il consueto boccone da inghiottire. Pessimisti? Ma no, realisti. La nazionale si forma sul campionato. In Italia lo si è buttato a mare da molto tempo per puntare tutto sulle due franchigie, Treviso e Parma, cioè Benetton e Zebre. In più qualche azzurro emigrato all’estero per migliorare, repertorio e portafoglio. Quando inglesi e francesi arrivano da campionati monstre, di altissimo livello agonistico e spettacolare, mentre irlandesi gallesi e scozzesi si cimentano con squadre fornitissime di giocatori pesanti nei tornei internazionali. Diciamo dunque grazie a questi ragazzi, che capitan Parisse, lui sì un grande davvero, si accinge a guidare verso l’ennesima sconfitta. Perché loro ci mettono la faccia, il fisico, la reputazione. Almeno diciamogli bravi. Ma niente processi. Qualcuno direbbe: rugby? No grazie. Invece tiriamo avanti in questo Sei Nazioni. Un percorso tutto in salita con tante spine. Senza sperare che questo o il prossimo O’Shea, come gli illustri predecessori, possa attuare il miracolo. Di cambiare direzione al povero rugby italiano. Che pure un tempo, giusto una dozzina d’anni fa, ci aveva francamente illuso. Ma all’epoca si schierava giganti come Giovanelli, Properzi, i fratelli Cuttitta, Dominguez, Troncon, Gardner, Vaccari e altri di quel calibro. Con questi super-atleti, nel Sei Nazioni siamo riusciti a starci, quasi alla pari. Bei tempi, davvero!
Carlo Gobbi
Tags: carlo gobbi, come farà ad evitare il Cucchiaio di Legno? Purtroppo non siamo da Sei Nazioni, e da rugby…, Italia a Cardiff

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Nota sull’autore: Carlo Gobbi

È il giornalista più poliedrico del panorama nazionale. Oltre a 7 Olimpiadi, 6 Mondiali e 15 Europei di pallavolo, e 139 test match di rugby, ha seguito oltre 20 Mondiali ed altrettanti Europei di ginnastica, judo, hockey, ghiaccio, pallamano, pesi, tiro.

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