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Sport

La sfida di Berrettini riparte dall’urlo di Diokovic. Partita in chiaro su TV8

Da Vincenzo Martucci 11/07/2021

Tutti dicono Djokovic perché il numero 1 del mondo ha la qualità del campione, ha servizio e risposta, ha agilità e potenza di fisico, sa difendere e sa attaccare, e perché ha l’esperienza specifica che gli viene da cinque titoli a Wimbledon e dalla finale Slam numero 30. E’ anche spinto da una molla fenomenale, il 34enne serbo, cioé da quei 19 Majors vinti che, sommati al titolo di domenica, lo porterebbero ad eguagliare il record di Roger Federer e Rafa Nadal.

Oltretutto sembra inarrestabile nella marcia verso la storia del tennis: con l’eventuale titolo a Wimbledon, da sommare ad Australian Open e Roland Garros, sarebbe ancor più favorito nell’ultimo Major stagionale, gli Us Open di New York, per chiudere il Grande Slam come solo Don Budge e due volte Rod Laver. Tutti dicono Djokovic perché sembra proprio superiore, soprattutto sui punti e nei tornei importanti, come ribadisce il 7/8 nei testa a testa di quest’anno anche contro i “top ten”, con l’unica eccezione della finale degli Internazionali BNL d’Italia di Roma contro Rafa.

Tutti dicono Djokovic dopo le prime, autentiche, difficoltà del torneo, contro Denis Shapovalov, cioé la stessa offensività creativa che Nole I di Serbia aveva patito nei primi due set del Roland Garros contro Lorenzo Musetti. E tutti dicono Djokovic valutando che, all’ultimo ostacolo, incrocia un avversario alla prima finale Slam.

Djokovic resta Djokovic, ed è sicuramente favorito per la finale di Wimbledon e anche per i prossimi maggiori traguardi. Ma Matteo Berrettini porta con sé la forza del destino, come altre volte nelle misteriose ed affascinanti favole che lo sport sa raccontare.

Una favola che tutti potranno vivere. Sky infatti, visto il valore e il richiamo di un evento storico come la prima finale di un italiano in singolare maschile a Wimbledon, ha deciso di trasmettere l’incontro domenica in chiaro su TV8, in diretta dalle 15.

Berrettini sembra inarrestabile in questa sua scalata al vertice che parte da un ragazzo alto e magro che serviva molto forte e poco più ma, negli anni, fra infortuni e delusioni, s’è costruito con umiltà: “Da piccolo ero scarso”. Ci ha messo tanta tenacia, tanta applicazione, tanto impegno anche nel cambiare mentalità.

E dal ragazzo un po’ musone che chiamavano “radiolina” perché continuava a borbottare durante gli scambi, auto-flagellandosi e sperperando preziose energie psichiche, è diventato l’unico giocatore al di fuori dei “Big 3” che sa vincere su tutte le superfici. Anche se, al momento, tre dei cinque titoli ATP li ha firmati sulla terra e due sull’erba ma ha tutti i numeri per imporsi anche sui campi duri.

Un po’ come Nadal, anche Matteo ha saputo reagire sempre benissimo agli infortuni – fra caviglie, polso e addominali – ritornando sempre più forte di prima. Il suo uno-due, servizio-dritto, è devastante come quello di grandi campioni del passato, cui sta aggiungendo pian pianino molto altro, a cominciare dal rovescio, con lo slice che sull’erba gli fa compensare molto i problemi, più la palla corta, la risposta e la volée, il colpo che può aprirgli ancor più vasti orizzonti.

Forte dell’esperienza personale da giocatore, una volta coach, Santopadre – con l’ausilio del braccio destro di Filippo Volandri nel settore tecnico FIT, Umberto Rianna – gli ha inculcato il cambio di ritmo e la varietà. Per cui, variando ampiezza e rotazioni, spaziando fra colpi in top e slice, mescolando potenza, kick e soluzioni più morbide, il romano, a 25 anni, nel pieno della maturità personale e fisica, può disinnescare la meccanica regolarità imperante nel tennis moderno. Sono caratteristiche che anche innumero 1 del mondo, Djokovic, non ama. O meglio: non ama subiremo adora infliggere a sua volta agli avversari. Come si è visto nettamente a Montecarlo contro il potente armamentario da fondocampo di Jannik Sinner.

n’altra caratteristica che il campione serbo non ama è chi gli mette pressione, quando avverte il potenziale offensivo insistito che gli arriva di là della rete, perché gli ruba il tempo per architettare le trame da fondocampo con cui sfianca il nemico. E Berrettini ha un pizzico di Pete Sampras e Boris Becker: senza che nessuno si inalberi con questi prestigiosi paragoni con due miti che rimarranno per sempre nella storia dello sport, ha un po’ di “Pistol Pete” per la perentorietà dei suoi colpi secchi, appunto di servizio e dritto, e ha un po’ di Bum Bum.

Non solo per il comune successo del Queen’s da esordiente – affermazione che poi il tedesco trasformò nel 1985 nella sconvolgente accoppiata con Wimbledon, come spererebbe l’italiano -, non solo per la capacità di riscrivere la storia del tennis del proprio Paese ma anche perché, dietro quel sorriso ugualmente aperto e sbarazzino, esprime una estrema normalità.

In Boris era quella di un 17enne prodigio, felice di poter far manbassa di dolci in pasticceria, in Matteo è quella di un ragazzo con le radici profonde di una bella famiglia, del coach di sempre (Vincenzo Santopadre), della sua Roma, della fidanzata dalla faccia pulita (Ajla Tomlianovic), di nonna Lucia che gli ha inculcato la passione per la lettura,  del mental coach-amico Stefano Massari col quale esplora le frontiere più complicate di se stesso, attraverso gli scrittori più stimolanti e film e serie Netflix sempre più intriganti.

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Un avversario no-limits, senza paura, senza dubbi, straordinario nella sua semplicità è il peggior avversario che Djokovic possa augurarsi. Soprattutto a fronte dell’enorme carico di pressione che il fenomeno deve sostenere dall’inizio del torneo e ancor di più dalla semifinale contro Shapovalov alla sfida per i Championships. Matteo ha qualcosa di diverso. Come ha ammesso candidamente dopo la semifinale contro Kurkacz: “Penso di non averlo mai sognato, perché era troppo. Anche per un sogno”. Ma ora, allenato com’è – “a tuffarsi nei problemi per capirli e vincerli”, come puntualizza Massari -, Berrettini è fortemente intenzionato ad andare oltre.

Una volta ritrovato il gioco proprio in semifinale contro Hurkacs, vuole verificare quanto è migliorato rispetto ai due ko subiti in altrettanti confronti con Djokovic: il primo, nei round robin delle sue prime ATP Finals di Londra 2019, era stato troppo penalizzante, al di là del 6-2 6-1, il secondo, quest’anno, nei quarti del Roland Garros, è stato ancor più combattuto di quanto dica il 6-3 6-2 6-7 7-5 finale. Viziato da 51 errori gratuiti di Matteo e fotografato dall’urlo liberatorio con cui Nole ha festeggiato il successo, svicolando in extremis da un pericolosissimo quinto set.

Il numero 1 d’Italia, l’esempio che ha trainato il Rinascimento del tennis italiano, portandosi dietro anche la fidanzata Tomljanovic, fino ai suoi primi quarti Slam, riparte proprio da quella reazione del numero 1. Se allora il suo servizio mise sempre più sotto pressione Djokovic, che succederà adesso passando dalla terra all’erba e con Matteo che si è sempre più lebarto dalla paura di rifarsi male dopo il micidiale infortunio ai pettorali di febbraio agli Australian Open?

Ai Championships 2021, l’allievo di Santopadre ha già messo giù 101 ace (21-record venerdì), contro i 63 di Nole, per intenderci, ha toccato le 139 miglia, cioé i 223 chilometri l’ora, anche se la sua percentuale di realizzazione sulla prima (82%) è inferiore a quella di Nole (85%). La capacità e la costanza nel dettare lo scambio, di variarlo, di imporre i tempi e di decidere quindi il proprio destino sarà la chiave fondamentale del match tutto di testa che può portare Berrettini in paradiso dopo averlo inserito per sempre nella storia del tennis italiano con la prima finale a Wimbledon.

Testo e foto tratti da supertennis.tv

Tags: #berrettini, #finale, Diokovic, Wimbledon

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Nota sull’autore: Vincenzo Martucci

Napoletano, 34 anni alla Gazzetta dello Sport, inviato in 8 Olimpiadi, dall’85, ha seguito 86 Slam e 23 finali Davis di tennis, più 2 Ryder Cup, 2 Masters, 2 British Open e 10 open d’Italia di golf. Già telecronista per la tv svizzera Rsi; Premio Bookman Excellence.

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