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Calcio, Pallacanestro

Il nostro calcio e il Clasico di Messi, il nostro basket e l’Nba: più diversi dello sport maschile e femminile

Da Vincenzo Martucci 24/04/2017

La massima rappresentazione di calcio e basket che ci arrivano dalla tv da Madrid e dagli Usa rimarcano i difetti di mentalità, organizzazione ed identità di casa nostra. Per puntare all’eccellenza servirebbero scelte estreme e coraggiose, che non facciamo nemmeno nella politica

Si dice che il basket maschile si gioca sopra il ferro e quello femminile sotto, e in generale che lo sport al maschile e al femminile siano due cose completamente differenti. E questo in tutti i campi, tanto che, nel tennis, pur avendo equiparato i premi negli Slam, le donne continuano a giocare meno set e, nel golf, hanno partenze diverse dal tee. In realtà, al netto di qualsiasi sciocco pregiudizio, sono due interpretazioni dello stesso sport, per la natura fisica di uomo e donna, entrambe interessanti, appassionanti e degne di attenzione. Molto più preoccupante, per noi uomini, la situazione che stiamo vivendo anche in questi giorni davanti alla nostra amata tv. Attenti, non è l stanchezza, non è quel goccetto di troppo che ci concediamo volentieri, di nascosto, non è l’abbrutimento delle prime ore del mattino dopo una notte insonne sul divano, quella che appare, a intermittenza, insieme allo zapping col telecomando, è la pura realtà. Quella che dovrebbe farci anche comprendere, ed accettare, meglio lo sfascio dell’ultima giornata di campionato di Inter e Milan, collage di giocatori più o meno capaci, raggruppati a forza in un album senza essere legati dalla colla giusta del grande condottiero, che sia un grande allenatore alla Mourinho o un grande centrocampista alla Pirlo. Così come succede all’Armani Milano che può solo perdere da sola le partite di Coppa come di Campionato, con tutto quel potenziale tecnico di giocatori che possiede, semplicemente perché non è una vera squadra, di gente che si aiuta, che compensa, che si sacrifica, che si riconosce in un condottiero o in un ideale.

    Ma appena cambiamo canale tv, ecco la luce, ecco spettacoli di calcio e basket che ci fanno stropicciare gli occhi, e sorridere, e ci costringono a fermarci finalmente su un canale solo, persino per la pubblicità. Che ridiventa una pausa accettabile, prima di nuove emozioni. Non dite: troppo facile, con gli investimenti e gli stipendi che girano da quelle parti, è chiaro che altrove, nell’Nba come nella Liga di calcio spagnola, ci sia la crema della crema degli atleti, è chiaro che lo spettacolo sia super, altrimenti non ci sarebbero altre 650 milioni teleutenti, ovunque, sulla faccia della terra. Ed è anche evidente che quella è la massima espressione di un’arte, così come la Gioconda o la Cappella Sistina. Nessuno lo discute. Nessuno lo contesta. I numeri sono numeri. Ma chi ha fatto o segue davvero un po’ di sport – non da tifoso cieco e sfegatato – sa anche che, in Italia, non finiamo mai compiutamente un’azione, nello sport come nella vita. Restiamo a metà, non rischiamo davvero, non affondiamo davvero il piede sull’acceleratore, non concludiamo davvero il tiro pieno ma cerchiamo piuttosto il fallo, non completiamo l’addestramento tecnico e fisico, non diamo spazio ai giovani, non ci schieriamo dichiaratamente a destra o a sinistra, piuttosto ci pieghiamo, accettiamo, contestiamo alla macchinetta del caffé l’allenatore, l’arbitro, il padrone, il segretario di partito, e restiamo nel limbo del centro, ignavi come ci condannerebbe Dante, pronti a schierare il veterano che lotta per lo zero a zero, per l’annullamento dell’avversario, non per il più impensabile dei successi in extremis.

Eppure, all’estremo, c’è il rischio, ma c’è anche lo spettacolo, e ci sono personaggi diversi, unici. Che, quando poi nascono casualmente in Italia, riconosciamo subito e idolatriamo, da Alberto Tomba a Valentino Rossi. Personaggi non facili, non sempre politically correct, più spesso controcorrente, perché continuamente all’attacco, alla ricerca di sé stessi e del proprio limite. Eppure, noi italiani, siamo stuzzicati da quello, siamo geneticamente quello, siamo famosi nel mondo proprio per quello, per saperci differenziare, vuoi con la moda, vuoi col cibo, vuoi con le nostre bellezze paesaggistiche, uniche ed estreme, vuoi con i “cervelli”, ormai sempre più emarginati e/o in fuga.

Dal nostro marasma, dalle amarezze di una domenica sportiva un po’ così, con troppi gol e troppe difese ubriache, all’improvviso, dalla tv, spunta Messi, quello barbuto che non avevamo riconosciuto contro la Juventus in Champions League, quello che non riusciva proprio a uscire dalla gabbia che gli aveva chiuso addosso Allegri, negandoci l’allegria del calcio-champagne, per garantirsi – giustamente, figuriamoci – una semifinale che profuma di storico trionfo. Risvegliato da una gomitata, dal sangue in bocca, dal fazzoletto stretto fra i denti, La Pulce ha ripreso a saltare e a finalizzare il tiki-taka stantìo del Barça come solo lui può fare. Sprizzando velocità, classe e fantasia in uno spettacolo che già era grandioso, dove ogni azione poteva accendersi nel gol, senza peraltro negarci la bellezza di cinque realizzazioni, tutte vissute, tutte estreme, tutte corali, tutte eccitanti, e fino all’ultimissimo istante, fino a regalarci il 3-2 più elettrizzante ed indimenticabile. Cinquecento gol segnati con la stessa maglia dovrebbero dire a noi italiani – soprattutto ai dirigenti italiani – che un’identità di squadra è fatta di fedeltà, come succede alla Juventus, con quell’ossatura Buffon-Bonucci-Chiellini-Barzagli che non è Zoff-Cabrini-Gentile-Furino, eccetera di una Juventus troppo grande per essere confusa con questa, ma che sicuramente la ricorda nella solidità difensiva. Messi che, dopo il gol si toglie la “camiseta” per mostrarla fiero ed orgoglioso ai tifosi, toccandosi il cuore e regalandoglielo, simbolicamente, dovrebbe farci capire come oggi, con Gianni Rivera e Sandro Mazzola in campo, Milan e Inter non sarebbero così scollate, anarchiche e schizzofreniche. E non veniteci a dire che in Italia non ci sono i Messi e i Ronaldo, perché quei due sono unici, ma gli altri, tutti gli altri attori di Real Madrid-Barcellona, esistono, eccome, e ovunque: bisogna però cercarli, allevarli, istruirli e crescerli, facendo scelte estreme e rischiose. Così come nel basket, è lapalissiano che il bacino di utenza e la tradizione, gli esempi, la tecnologia dell’Nba sono inarrivabili per tutti, ma il nostro livello deve assolutamente salire. Perché il distacco fra la serie A e quel basket, agli occhi di noi guardoni notturni davanti alla tv, è ancor più eclatante di quello che esiste fra lo sport al maschile e quello al femminile.

Vincenzo Martucci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Nota sull’autore: Vincenzo Martucci

Napoletano, 34 anni alla Gazzetta dello Sport, inviato in 8 Olimpiadi, dall’85, ha seguito 86 Slam e 23 finali Davis di tennis, più 2 Ryder Cup, 2 Masters, 2 British Open e 10 open d’Italia di golf. Già telecronista per la tv svizzera Rsi; Premio Bookman Excellence.

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