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Pugilato

Hands of God, un atto di speranza, un tributo a chi si oppone al destino scritto e all’indifferenza

Da Sport Senators 28/07/2018

Tre anni di lavoro e peripezie tra Iraq, Cina, Qatar, Thailandia e Azeirbaijan dietro un gruppo di atleti un po’ sconclusionati, animati da una forza di volontà senza paragoni. Dall’incontro per caso a Baghdad a fine 2014 a un reportage sui terroristi dello Stato Islamico…

Il pugile tedesco all’angolo di avvaleva di un fisioterapista, uno psicologo, l’allenatore e il cutman. Waheed poteva contare su un coach kazako di cui capiva una parola su quattro e di un vecchio campione che gli spiegava come il coraggio viene prima della tecnica. Baku, Azerbaijan, torneo pre Olimpico, giugno 2016, ultima possibilità per qualificarsi ai Giochi di Rio.
Il film sull’incredibile storia dei pugili iracheni che sognavano l’Olimpiade, doveva finire lì. Una sconfitta onorevole, l’immagine chiara dell’impossibilità di un Paese in guerra di competere ad alto livello. Le ambizioni al capolinea, la dignità salva.
     Avevo il volo di ritorno prenotato e il mio finale un po’ malinconico ormai definito. A volte per spiegare la magia della vita, lo sport è l’unica possibilità.
Waheed, soldato di fanteria dell’esercito iracheno ha battuto il campione tedesco. Poi quello argentino, lo svedese ed infine il numero uno delle classifiche, un dominicano dal cazzotto di piombo. Ma uno che di mestiere entra nelle case a scovare terroristi di ISIS, mica si impressiona facilmente. Aveva ragione il vecchio campione Ismail Salman, l’ultimo pugile iracheno a qualificarsi ai Giochi nel 1984, poi sconfitto da Holyfield: la tecnica conta fino a un certo punto, il coraggio vale di più.
E quando un mese dopo Waheed è entrato nello stadio di Rio impugnando la bandiera del suo Paese, la gente a Baghdad ha pianto. E un po’ anch’io, perché ora avevo il mio finale. Una conclusione su cui, posso garantire, soltanto due anni prima nessuno avrebbe scommesso.

 

    E’ questa la parte finale di Hands of God, il documentario presentato alla 64a edizione del Festival di Taormina, tre anni di lavoro e peripezie tra Iraq, Cina, Qatar, Thailandia e Azeirbaijan – appunto – appresso a un gruppo di atleti un po’ sconclusionati eppure animati da una forza di volontà senza paragoni. Li avevo incontrati per caso a Baghdad a fine 2014, mi trovavo lì per un reportage sui terroristi dello Stato Islamico, giunti a 50 chilometri dalla Capitale. Il tipo di servizio per cui il direttore di turno, a quel tempo, provava un certo fastidio: “Ancora Iraq? Basta, la gente è stanca”.
I pugili si allenavano all’aperto, con la palestra inagibile e quattro paio di guantoni per dodici ragazzi.
Così ho pensato al documentario. Tre mesi dopo ero di nuovo in Iraq per scoprire che la metà di quei giovani si divideva tra la palestra e il fronte dove l’esercito era insufficiente per contenere la minaccia di Isis. Tre i protagonisti. Jafaar, un 17enne peso gallo, Saadi, un potente peso massimo e Waheed, il peso medio, quello che stava nell’esercito.
    Tre anni e molte bombe più tardi, l’Iraq è un posto solo un po’ più tranquillo rispetto ad allora. Il film racconta della vita di tutti giorni di questi giovani che hanno gli stessi sogni e le stesse ambizioni dei loro coetanei a Helsinki come a Milano. Sono le paure a fare la differenza: la paura di morire, di perdere un familiare, di vedere il proprio Paese cadere in mano di fanatici religiosi.
     Quando la madre di Jafaar racconta che sarebbe orgogliosa se il proprio figlio morisse per difendere la libertà dalla propria Nazione, capisci che la questione è seria. Quando Saadi comunica al padre che nel fine settimana si unirà a un gruppo di amici per aiutare la resistenza a far fuori un po’ di nemici, quello resta impassibile e gli ricorda che al suo ritorno dovrà recuperare gli allenamenti perduti.
Camminando sul terreno minato – letterale – del surreale, mettendo in fila una serie di sconfitte e attentati che non sembravano finire mai, siamo arrivati faticosamente fino a Baku. Con un finale da inventare e parecchie domande rimaste senza risposta.
     Nel novembre 2015, quando un attentato di ISIS devasta Parigi causando 137 vittime, il mondo si ferma inorridito. Giustamente. Ma è il giovane Jafaar ha consegnarmi un interrogativo che nessun film riuscirà mai a risolvere: “Stiamo morendo da anni sotto le bombe. Solo a Baghdad nello stesso mese di novembre 2015, sono morti 995 civili. Perché nessuno si accorge di noi? Perché non ne parla nessuno se combattiamo lo stresso nemico?”
    Hands of God è un atto di speranza lungo 72 minuti ma soprattutto un tributo a un gruppo di esseri umani capaci di opporsi al destino scritto e all’indifferenza, una miscela micidiale di fattori comune a milioni di persone che i media si ostinano a ignorare finché non si trasformano in un problema troppo vicino a noi.
Alla fine di un viaggio del genere ci sono molte persone da ringraziare, a cominciare dall’amico e produttore esecutivo Alfonso Cuarón che mi ha spinto sulla strada del documentario, dopo aver preso atto della mia impotenza di fronte a un certo fallimento delle news tradizionali. E poi Gaby Rodriguez, Alice Scandellari, Adam Gough, Nicola Cavalazzi, Matteo De Nora, il Doha Films Institute e molti altri che hanno portato un piccolo, immenso contributo a questo piccolo miracolo.
Ma è chiaro che il ringraziamento più grande va a Waheed, Jafaar, Saadi e a tutti coloro che in Iraq ci hanno aiutati, inspirati e riempito il cuore di sano orgoglio.  Ancora oggi – vista la pochezza della mia conoscenza dell’arabo – con i ragazzi comunichiamo in modo rudimentale e diretto. Ma le cose che abbiamo vissuto assieme, quello che ci siamo detti guardandoci semplicemente negli occhi, in silenzio, è un tesoro inestimabile. Più grande di qualsiasi medaglia olimpica.

(Le immagini  più belle del documentario)

Riccardo Romani
Tags: boxe, Cina, documentario, Hands of God, iran, pugilato, Qatar, Thailandia e Azeirbaijan

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Nota sull’autore: Sport Senators

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