Il tempo passa. Quante volte abbiamo detto sospirando frasi di questo tenore. Pare un pensiero sensato, con una sua logica, un suo filo conduttore. Purtroppo non è proprio così che vanno le cose. Siamo noi a passare, scivolare via inesorabilmente. Il tempo, invece, resta.
Succede anche nel calcio che celebra pochi soliti arcinoti campioni dimenticandone altrettanti. We can be Heroes, just for one day cantava nel 1977 David Bowie sulle note di Brian Eno e Robert Fripp e nel calcio, troppo spesso, ci sono personaggi a cui Eupalla ha dato in sorte questo destino. Atleti che non sono star ma supernove: esplosivi, accecanti ma che poi, per motivi più o meno noti, si eclissano in un battito di ciglia e vengono sistematicamente archiviati nel dimenticatoio. La grandiosità e i superlativi, gli istanti, i lampi che modificano il corso della Storia in modo irreversibile e sconvolgente non riescono più a risplendere, scaraventate in quell’oblio che Ludovico Ariosto diceva essere la luna.
E l’oblio sa essere soffocante, angusto. Se sei alto 1.89 cm per 69 kg, quella stazza che ti ha consentito di neutralizzare non un calcio di rigore, ma ben quattro tutti indirizzati nello specchio della porta, ora è un fardello, un ostacolo deprimente. Il protagonista della vicenda che stiamo per narrare ha vissuto il meglio e il peggio che la vita ti possa riservare nell’arco di pochi giorni. Un breve spazio in cui si inseriscono talento, psicologia, fortuna, coraggio ma anche angoscia, sofferenza, invidia o, forse, solo un beffardo destino. Lo ha fatto giocando per la squadra di una città che dimostra quanto dicevamo in apertura del nostro prologo: la gente, con le sue idee e follie, passa; i frutti del suo tempo, soprattutto quelli marci, restano in piedi.
La storia è quella di Helmuth Duckadam, i colori sono quelli rossoblù della Steaua Bucarest e i palcoscenici sono due e molto diversi tra loro: da un lato le strade della Pyongyang dei Carpazi, dall’altro il prato verde del Ramon Sanchez Pizjuan di Siviglia.
Diamo un po’ di numeri: 270 metri per 240, 84 metri di altezza e un’estensione per 92 metri sotto il suolo. Mille stanze, con due ulteriori livelli sotterranei in uso. Sessanta gallerie, di cui due misurano 150 m di lunghezza e 18 m di larghezza; 64 saloni. Un milione di metri cubi di marmo dalla Transilvania; 3.500 tonnellate di cristallo, 480 candelieri, 1.409 luci e specchi; 700.000 tonnellate di acciaio e bronzo per porte e finestre monumentali; 900.000 metri cubi di legno per parquet e per i rivestimenti; 200.000 m² di tappeti di lana di varie dimensioni; tende di velluto e broccato adornate con argento e oro. Questi sono giusto una manciata di dati riguardo la Casa del Popolo di Bucarest, oggi sede del Parlamento romeno, ed epitome della follia di Nicolae Ceausescu, il ‘Genio dei Carpazi’.
La sua scalata, iniziata da una famiglia di umili contadini, era poi continuata rapidamente con la sua consacrazione sulla scena politica nazionale: nel 1974 Ceausescu si era autoproclamato Presidente della Repubblica. Il suo è un potere dittatoriale in salsa rossa, basato sul culto della personalità, sua e della moglie Helena. Il clima oppressivo che ammorberà la Romania fino all’ultimo giorno di dittatura comunista è intuibile da provvedimenti come la tassazione tra il 10 e il 20% sul reddito per chi non avesse ancora procreato entro i 25 anni, che comporta l’abbandono di un numero incalcolabile di bambini negli orfanotrofi; ma anche il razionamento del cibo, stabilito per sopperire alla grave situazione economica e che viene fatto passare per una «mossa per combattere l’obesità».
Fare calcio in Romania non deve essere stato facile. In quel periodo così buio, però, una squadra di calcio romena riesce a salire sul tetto d’Europa, alzando il 7 maggio 1986 al cielo di Siviglia la Coppa dei Campioni. Quella squadra è la Steaua Bucarest, in grado di sconfiggere in quei primi giorni di maggio il Barcellona di Schuster. Un barlume di speranza nelle vite di un popolo ormai straziato dalla brutalità della dittatura, che termina tre anni dopo quel trofeo, nel 1989, a seguito delle agitazioni popolari che costringono alla fuga Ceausescu e consorte, poi raggiunti e assassinati alle 16:00 del giorno di Natale da un plotone militare.
La Steaua Bucarest nasce come ‘Associazione Sportiva dell’Esercito’ dalle ceneri dell’FC Carmen Bucarest, una polisportiva legata ad alcuni ufficiali della Casa Reale di Romania. Nel 1961 ecco venirle affibbiato il nome “Steaua”, “stella”, uno dei simboli più usati per connotare le squadre legate al Ministero della Difesa. Dopo anni di splendore nazionale la società affronta, agli inizi degli anni Ottanta, una situazione complessa sotto il profilo finanziario. I fondi statali sono pochi e tra le fila della dirigenza si allunga un’ombra inquietante: è quella di Valentin Ceausescu, il figlio adottivo del dittatore. I primi anni Ottanta vedono, però, l’arrivo in maglia rossoblù di quello che, il giorno dopo la finale contro i Blaugrana, sarà battezzato dal Corriere dello Sport “il Superman rumeno”: Helmuth Duckadam.
Classe 1959, proviene da una famiglia di etnia tedesca e nasce a Semlac, non lontano dal confine con l’Ungheria. A 17 anni è già un ragazzo alto, robusto e molto reattivo tra i pali. Esordisce con il Constructorul di Arad, poi passa all’UTA, squadra con cui debutta nella Prima Divisione rumena. Nel 1982, ecco il grande salto: Helmuth passa alla Steaua allenata da Emerich Jenei, dove si trova a condividere lo spogliatoio con giocatori del calibro di Lacatus, Boloni, Piturca e del difensore centrale Belodedici, che vincerà la Coppa dei Campioni anche con la Stella Rossa di Belgrado nel 1991. Quando si dice avere il vizietto. Dopo due stagioni di assestamento, la Steaua centra la doppietta campionato (il decimo della sua storia) – coppa nazionale nella stagione 1984-1985, con a difesa della porta quel ragazzone dal look così poco in linea con i dettami del regime ma che ispira immediatamente simpatia. Ventiquattro le reti subite in 34 giornate di Divizia A. Un risultato esaltante, che fa presagire l’apertura di un ciclo tra i confini nazionali.
La stagione 1985-86 va, però, oltre ogni più rosea aspettativa sia per la Steaua che per il suo estremo difensore. Per quanto fosse una squadra di buon livello, nessuno all’epoca avrebbe mai pronosticato la Steaua sul tetto d’Europa. I romeni non brillano per la qualità del gioco offerta, tutt’altro. I roșu-albaștrii le giocano tutte alla stessa maniera: un asfissiante ostruzionismo, a cui sommare qualche contropiede non appena la squadra avversaria si scopre più del dovuto. Come in ogni trionfo che si rispetti, anche in questo caso la dea bendata ha giocato un ruolo di primo piano.
Lungi dal voler insinuare la presenza di palline riscaldare o roba simile, nessuno si offenderà se bolliamo il cammino che portò i campioni in carica di Romania a giocarsi la finale di Siviglia come agevole: prima i tutt’altro che irresistibili danesi del Vejle Boldklub, poi i colleghi d’oltre cortina del Honvéd, formazione ungherese. Quello che più che un tabellone di Coppa dei Campioni pare una sequela di turni preliminari di Conference League si arricchisce in seguito di una nuova esotica tappa: per i quarti di finale la Steaua deve fare i conti con il Kuusysi Lahti, squadra di una città nel cuore della Finlandia meridionale. L’approdo alle semifinali sembra una formalità. E, invece, ne risulta una gara di andata collosa con la stoica resistenza dei finnici che viene ripagata da uno 0-0, che fa correre più di qualche brivido lungo la schiena dei romeni, e non solo perché il ritorno sarà da disputarsi a Helsinki.
Alla fine, un gol di Piturca all’86esimo regala alla Steaua la doppia sfida con il primo avversario di livello: i bianco-malva dell’Anderlecht. Dati favoriti per la vittoria finale, i belgi erano nel pieno del momento più alto della storia del calcio fiammingo e il risultato dell’andata pare confermare questo sentore: 1-0 Anderlecht griffato da una deliziosa palombella a scavalcare un incolpevole Duckadam di Enzo Scifo. Il ritorno al Ghencea, la storica casa dello Steaua Bucarest, dimostra però che in certe circostanze il senso pratico vale più di qualsiasi svolazzo artistico: alle volte una pur infinitamente meno raffinata scodella di borsch fumante è preferibile a qualsiasi tavoletta di cacao nocciolato. Piturca, Balint e ancora Piturca fanno vedere le streghe, o sarebbe meglio dire i vampiri, ai poveri belgi, costretti, è proprio il caso di dirlo, a fare una figura da cioccolatai. La Romania si è appena regalata un appuntamento con la Storia.
Intanto, per le strade di Bucarest il regime continua a mietere vittime e porre strani divieti. Ceaușescu impedisce ai tifosi della Steaua di seguire i propri beniamini in Spagna. Soltanto in mille possono raggiungere la sede della finale. E quei mille saranno rigorosamente militari e dirigenti del governo. La squadra avversaria, il Barcellona, invece, può contare sul sostegno di quasi 70 mila anime disposte ad accollarsi quasi mille chilometri di strada per assistere al Ramón Sánchez Pizjuán di Siviglia a quella che ha tutta l’aria di essere un’agevole vittoria degli azulgrana. Il cammino dei blaugrana è stato poi molto più probante rispetto a quello della Steaua: Sparta Praga, Porto, Juventus e, infine, Goteborg.
Il 7 maggio 1986, allo stadio Ramon Sanchez Pizjuan di Siviglia, va in scena la trentunesima edizione della finale Coppa dei Campioni: Barcellona contro Steaua Bucarest. Arbitra il francese Michel Vautrot; nome forse non estraneo ai calciofili più accaniti: nel 1984 fu coinvolto in un presunto caso di corruzione in un Roma-Dundee, semifinale di Coppa Campioni del 25 aprile ‘84.
È un 7 maggio molto particolare, quello di 37 anni fa. Il mondo è sotto shock per l’incidente nucleare di poche settimane prima a Chernobyl, Ucraina, ma lo sport non ha intenzione di fermarsi, nonostante il reattore 4 della Centrale non abbia ancora finito di emettere sostanza radioattiva. La partita è brutta, molto tattica. La Steaua ha comunque il pregio di addormentarla, annullando di fatto il gap tecnico rispetto agli avversari. Per di più, le poche volte che il Barça riesce a rendersi pericoloso entra in scena Duckadam, una sorta di oggetto misterioso per chi non bazzicava il calcio romeno. Quella sera un alieno alla Visitors per intenderci.
Arriva così il 90esimo minuto. Poi il 120esimo e la parola fine al calcio giocato. Con i rigori, infatti, si entra in un’altra dimensione. Duckadam e l’omologo basco Urruticoechea si annusano, si scrutano. Il primo alto, slanciato e col viso da cantante rock progressive anni ‘70. Il secondo basso, imberbe e dalla capigliatura bruna ordinata, come uno scolaretto. La tensione nell’aria si taglia con il coltello. Da un lato l’ansia catalana di essersi trasformati in impiegati solerti dell’Ufficio Complicazioni Cose Semplici. Dall’altro la fibrillazione romena, con l’undici che vorrebbe assolutamente evitare di ricevere l’onore delle armi da parte degli avversari e venire dimenticati nel giro di un paio di giorni.
Inizia la Steaua, il centrocampista Mihail Majearu fallisce. Poi Duckadam veste per la prima volta i panni di Superman: via gli occhiali dalla spessa montatura nera e primo riflesso felino su Alexanko. Urruti lo imita parando su Boloni e di nuovo il portiere romeno blocca il tiro di Pedraza. Dopo 120 minuti e quattro rigori tirati la partita è ancora sullo 0-0. Il primo pallone capace di finire in fondo al sacco è quello calciato da Lacatus, mentre Duckadam continua la sua personalissima crociata contro i blaugrana ipnotizzando dagli undici metri anche Pichi Alonso. Balint segna poi il rigore del 2-0 spiazzando Urruti. Il Barcellona non può più sbagliare. Sul dischetto si presenta Marcos Alonso, che probabilmente crede di essere in preda alle allucinazioni: Duckadam sarà ormai alto non più 190 centimetri, ma almeno 220 e la porta ormai è invisibile dietro la stazza colossale dell’estremo difensore della Steaua. Lo spagnolo cerca la conclusione di piatto angolandola senza troppa convinzione. A Helmuth è sufficiente uno spostamento laterale per inglobare nel suo immenso petto il pallone.
Quattro rigori su quattro parati e la Steaua Bucarest è campione d’Europa. A Siviglia cala il gelo. Un’atmosfera irreale ammanta i festeggiamenti sfrenati e colmi di incredulità dei giocatori romeni, che certamente avrebbero meritato ben altra cornice di pubblico. A qualcuno, forse, non essere illuminato dalle luci della ribalta sta perfino dando un po’ fastidio.
«Fummo ricevuti da Ceausescu dopo la finale col Barcellona e rimanemmo sorpresi dalla sua freddezza. Addirittura, ci disse che, se ci fossimo preparati meglio, avremmo potuto vincere nei 90 minuti!».
Rientrato in Romania da idolo indiscusso, Duckadam, 27 anni, diviene “Eroul de la Sevilla”, eroe di Siviglia. ‘Calciatore rumeno dell’anno’, si posiziona 8° al Pallone d’Oro 1986, vinto dall’ucraino Igor Belanov. Le sirene dell’Europa occidentale iniziano a esercitare il loro fascino. Diversi club si fanno avanti per assicurarsi le sue prestazioni, tra cui il Manchester United che di lì a poco avrebbe ingaggiato un tale di nome sir Alex Ferguson.
Nei mesi successivi all’apoteosi, il portierone sparisce improvvisamente dalla circolazione per una manciata di giorni. Al suo rientro, i media ufficiali del regime danno una notizia raggelante: tornato ad Arad per l’estate, Duckadam sta giocando una partitella con alcuni amici. È l’11 luglio 1986: per proteggere la spalla durante una caduta, appoggia la mano destra sul prato e subito avverte una fitta lancinante al braccio, quasi da svenire. I medici gli diagnosticano un aneurisma arterioso periferico su cui intervenire al più presto. A Bucarest si precipitano a metterlo sotto i ferri. La sera dello stesso giorno, dopo cinque ore di operazione, evita l’amputazione del braccio. Convinto di poter tornare a giocare, Duckadam riprende pian piano ad allenarsi con la Steaua, dovendo però scontrarsi con la diffidenza dei medici.
Il rientro continua a slittare; ciononostante viene aggregato alla squadra nel viaggio a Tokyo per disputare l’Intercontinentale contro il River Plate e partecipa persino a un paio di allenamenti, più che altro per motivi di immagine. Ma tra i pali ci va tale Dumitru Stingaciu, il portiere di riserva della finale di Siviglia, e Duckadam riceverà la sgradevole sorpresa natalizia di sentirsi dire che la sua carriera è finita. E se non può più giocare a calcio, osservano gli uomini di Ceausescu con gelida ottusità burocratica, non potrà più far parte dell’esercito né ricevere lo stipendio. Non sono passati neanche sette mesi dal 7 maggio 1986, la notte più bella della sua vita e, per certi versi, la più felicemente assurda mai capitata a un portiere di calcio. Sfruttando la popolarità che gli resta, riesce a entrare nella polizia di frontiera presso un villaggio al confine con l’Ungheria, non lontano dalla nativa Semlac. Dopo sette anni, durante i quali raggiunge il grado di maggiore, va in pensione come un qualunque cittadino, agevolato da quel maledetto problema fisico.
La fine è davvero troppo nebulosa per non alimentare voci di corridoio e dietrologie di ogni sorta. Secondo il rumour più ostinato, Nicu Ceausescu, altro figlio del dittatore, avrebbe mandato i suoi sicari a spezzare le mani di Duckadam per ritorsione. Un ricco tifoso del Real Madrid, forse l’allora presidente blancos Ramón Mendoza o addirittura re Juan Carlos in persona, avrebbe regalato al portierone una Mercedes per ringraziarlo delle prodezze contro il Barcellona. C’è un problema, però: nella Romania socialista nessuno può guidare un’auto così smaccatamente capitalista, sarebbe di pessimo esempio generale. Il presidente Ceausescu concede ai nuovi campioni d’Europa nulla più di un fuoristrada ARO, prodotto a trazione integrale rigidamente indigeno. Poiché il portiere non intende rinunciare al bolide, magari parcheggiandolo gentilmente nel garage di casa Ceausescu, i sicari si mettono all’opera, rovinandogli per sempre gli strumenti del mestiere.
Una storia in grado di mescolare la tragedia, l’epica, la fiaba e il giallo. Tutti rigorosamente a forti tinte calcistiche. Non sempre le favole, dunque, finiscono con il lieto fine. E a quanto pare il fato non ha sorriso neanche a chi indossava i guantoni come lui ma vestiva blaugrana quel 7 luglio 1986: Urruti è infatti scomparso a soli 48 anni il 24 maggio 2001 a causa di un incidente stradale presso una circonvallazione di Barcellona.
La gente passa. Le vestigie del loro tempo restano. E questo vale anche per Duckadam e per la sua notte cristallizzata per sempre. Una teca del calcio.