Essere al top nella propria disciplina non significa necessariamente stare bene con sé stessi. Lo sanno bene gli atleti che, spesso e volentieri, devono fare i conti con la gestione delle emozioni e i trabocchetti che il nostro cervello ci riserva. Lo sa bene anche Marco Valerio Ricci che da anni segue gli sportivi ad alto livello in qualità di mental coach consentendo loro di trovare quelle energie nascoste per esprimersi al meglio nelle specialità che privilegiano. Dalla Nazionale di rugby a Niccolò Pisilli, l’esperto romano ha accompagnato diversi big a vette difficilmente pensabili alla vigilia.
Qual è il ruolo del mental coach di uno sportivo?
Oggi come oggi il mental coach è fondamentale sia per atleti di alto livello che a livello giovanile perché si tratta di una ulteriore specializzazione. Un tempo c’erano soltanto lo sportivo e il suo allenatore che fai occupava un po’ di tutto, poi è arrivata la figura del preparatore atletico, io fisioterapista, il nutrizionista e, a cavallo fra la fine degli Anni Novanta e l’inizio degli Anni Duemila, è arrivata questa nuova figura che non va confusa con quella dello psicologo dello sport, il mental coach. Il compito è quello di aiutare l’atleta a sfruttare al meglio le proprie doti con. Un allenamento specifico sia a livello emotivo, sia a livello mentale. Oggi nello sport di alto livello siamo in una situazione dove un minimo dettaglio fa la differenza, ciò che cambia è come l’atleta pensa a quel minimo dettaglio, dal pensare banalmente come migliorarlo sino alla percezione del proprio corpo e quindi a un lavoro di connessione fra il pensiero, le emozioni, la sensazione e l’azione. Ad alto livello il mental coach lavora su tutte queste fasi, che per l’atleta sono estremamente delicate da equilibrare. L’allenatore non ha più il tempo né la possibilità di lavorare come prima su questi aspetti e per questo il mental coach può fungere da elemento di connessione fra tutto ciò che l’atleta compie.
Come vivono gli allenatori il ruolo del mental coach?
Normalmente l’idea è quella di creare un team attorno all’atleta o a una squadra, quindi gli allenatori hanno chiaro che quella del mental coach è solamente una differente specializzazione. Non c’è solo l’accettazione da parte dell’allenatore, ma anche il rispetto del mental coach del proprio ruolo. A volte ho ricevuto feedback di allenatori che si sono trovati a che fare con persone non sufficientemente professionali e questo ha creato delle frizioni. A volte si trova dello scetticismo proprio per episodi di quel genere. Molto spesso ci sono tecnici che semplicemente non vogliono sapere cosa faccia il mental coach, a patto che non impatti né interferisca con il loro lavoro, altri che invece sono più che disponibili ad aprirsi alla nostra professione e queste sono le situazioni migliori per gli atleti. L’allenatore dopotutto è colui che dà quel feedback che il mental coach può sfruttare per aiutare ancor di più l’atleta nella performance perché è l’allenatore che riesce a sentire e percepire come sta lo sportivo. Noi non possiamo sempre esser presenti per seguire gli allenamenti o le fasi di gara, motivo per cui il raccordo e il confronto fra mental coach e allenatore è fondamentale. In genere ho sempre cercato di favorirlo, anche se a volte, proprio per il rapporto che si crea, si è trattato di aspetti che vanno oltre l’ambito puramente professionale.
Fra gli atleti seguiti spiccano Niccolò Pisilli e la Nazionale di rugby. Come si svolge il lavoro a questi livelli?
Normalmente l’idea è quella di creare un team attorno all’atleta o a una squadra, quindi gli allenatori hanno chiaro che quella del mental coach è solamente una differente specializzazione. Non c’è solo l’accettazione da parte dell’allenatore, ma anche il rispetto del mental coach del proprio ruolo. A volte ho ricevuto feedback di allenatori che si sono trovati a che fare con persone non sufficientemente professionali e questo ha creato delle frizioni. A volte si trova dello scetticismo proprio per episodi di quel genere. Molto spesso ci sono tecnici che semplicemente non vogliono sapere cosa faccia il mental coach, a patto che non impatti né interferisca con il loro lavoro, altri che invece sono più che disponibili ad aprirsi alla nostra professione e queste sono le situazioni migliori per gli atleti. L’allenatore dopotutto è colui che dà quel feedback che il mental coach può sfruttare per aiutare ancor di più l’atleta nella performance perché è l’allenatore che riesce a sentire e percepire come sta lo sportivo. Noi non possiamo sempre esser presenti per seguire gli allenamenti o le fasi di gara, motivo per cui il raccordo e il confronto fra mental coach e allenatore è fondamentale. In genere ho sempre cercato di favorirlo, anche se a volte, proprio per il rapporto che si crea, si è trattato di aspetti che vanno oltre l’ambito puramente professionale.
Come si affronta il recupero di un atleta da un infortunio?
In altri ambiti ho seguito sciatrici che sono arrivate fino in Coppa del Mondo senza tuttavia esplodere, a trovandosi a dover fare i conti con gravi infortuni alle ginocchia. Lì abbiamo lavorato tanto sul riprendere l’equilibrio rispetto a se stesse, pensando anche allo sci come una metafora dell’equilibrio. Dopotutto in quei casi le gambe sono sottoposte a forze particolarmente intense mentre si affronta il gesto ad alte velocità e in quei casi serve tanto equilibrio tra forza, tecnica, grinta e centratura. Sono aspetti che arrivano da dentro e li si porta verso l’esterno come una forma di comunicazione di sé. Ogni sport ha le sue metafore, ma che si rispecchiano poi sul modo di pensare dell’atleta e su come il mental coach aiuta l’atleta a esprimersi perché lo sport è il modo in cui lui si rapporta con il mondo esterno esprimendo tutta la sua eccellenza. Il compito del mental coach è aiutare gli atleti a ottimizzare questa comunicazione verso l’esterno e questa espressione di sé.
Come giudica il caso Guardiola?
Quest’argomento esula un po’ dalle competenze del mental coach perché interessa maggiormente la psicologia dello sport. Casi di autolesionismo come quello che ha interessato Guardiola toccano più aspetti psicologici che di ottimizzazione delle performance. Sicuramente non c’è soltanto un problema di accettazione di sé stessi e dei risultati, ma anche altro che andrebbe affrontato anche da un punto di vista psicoterapeutico. Da un punto di vista di mentalità si può dire che Guardiola è quasi ossessionato dalle performance con altissimi standard. Quello che bisognerebbe comprendere quanto questa manifestazione riguardi la non accettazione di qualcosa che sta accadendo e sul cui esito ha soltanto una parziale influenza e quanto invece ci sia qualcos’altro alla base. Con i miei clienti ho coniato un motto che suggerisco loro di applicare sempre ed è “soddisfatti sempre, appagati mai”, quindi da una parte la soddisfazione per la propria performance indipendentemente dall’aver raggiunto determinati traguardi, dall’altra l’idea di esser arrivati e adagiarsi quindi sugli allori. Io sono dell’idea che bisogna esser soddisfatti a prescindere, quindi trovare il modo di vivere un senso di soddisfazione per la vita che permette di esprimere sé stessi anche quando non riusciamo a fare qualcosa al meglio. L’appagamento è invece pensare di essere arrivati, sentirsi satolli, è ciò che porta alcuni talenti a fare l’exploit e poi a non ripetersi più. Quello lo trovo deleterio.
Sono così diversi i campioni dalle persone comuni?
Nel caso di Guardiola sarebbe probabilmente utile che lavorasse sulla sua capacità di essere profondamente soddisfatto di sé, imparando al contempo a trasformare il senso di insoddisfazione in una mancanza di appagamento che gli permetta di sfruttare la sua tensione continua verso l’eccellenza in maniera sana, e non solo su qualcosa che sembra lo porti a sentirsi così frustrato da cadere nell’autolesionismo. Ho lavorato spesso con top performer anche fuori dall’ambito sportivo i quali entravano in crisi appena c’era una mancanza di risultati, pur avendo raggiunto in passato vette incredibili. Questo avviene perché quella spinta interiore che porta a performare ad altissimo livello, spesso generata da un senso di insoddisfazione perenne, se non ci si evolve, può diventare una sorta di boomerang generando dei comportamenti che vanno seguiti da professionisti diversi dal mental coach, come nel caso specifico di Guardiola.