“Il pugile è ballerino e attore. Mette in gioco fisicità, individualità, totale coinvolgimento di mente e di corpo. Trasporta sul palcoscenico del ring il racconto drammatico di tutto quello che ha vissuto prima, di tutto quello che spera possa accadere dopo. Ogni combattimento è una storia da raccontare, perché sul quadrato i pugili non salgono solo con il corpo, ma si fanno accompagnare dalle esperienze della loro esistenza, dalle personalità, dalle paure e dai sogni. I pugili raccontano sul ring la loro storia, come lo scrittore fa su una pagina bianca. I pugni sono le parole, le finte e gli attacchi rappresentano le suggestioni. Il gong segna la fine di un match, di un libro”.
Scrivono così i miei amici giornalisti Franco Esposito e Dario Torromeo nel loro libro “I pugni degli eroi”. Questo parallelo tra boxe e letteratura mi piace, mi coinvolge. Perché in fondo noi siamo la “noble art”. In troppi l’hanno dimenticato.
E’ un rapporto antico quello tra pugilato e letteratura. Parlo di Omero e del XXIII canto dell’Iliade, dello scontro tra Eurialo ed Epeo durante i Giochi funebri per commemorare Patroclo. O di Virgilio che nel V libro dell’Eneide descrive la sfida tra Darete e Entello nel corso dei Giochi che ricordano Anchise, padre di Enea, a un anno dalla sua morte.
Ha radici più moderne il legame tra boxe e cinema. La drammaticità che è alla radice del pugilato si presta alla perfezione per la narrazione sul grande schermo. Sono storie intense che bruciano la pelle, ti entrano nel cuore fino a commuoverti.
La scrittrice americana Joyce Carol Oates nel 1987 ha composto un saggio, intitolato semplicemente “Sulla boxe”. Dice la Oates: “Nessun altro soggetto è, per lo scrittore, così intensamente personale come la boxe. Scrivere di pugilato significa scrivere di se stessi; e scrivere di pugilato ci obbliga a indagare non solo la boxe, ma i confini stessi della civiltà, cos’è o cosa dovrebbe essere umano. Anche se un incontro di boxe è una storia senza parole, ciò non significa che non abbia un testo o un linguaggio, che, in qualche modo, sia rozza, primitiva, inarticolata. Significa soltanto che quel testo è improvvisato nell’azione; il linguaggio è un raffinato dialogo tra pugili (tanto neurologico che psicologico, un dialogo di riflessi istantanei) che si svolge in adesione concorde nell’arcano volere del pubblico”.
Ho fatto il pugile, ho interpretato qualsiasi ruolo. Sono stato atleta, manager, organizzatore, arbitro, maestro. Sono stato e sono innamorato di questo sport. E come ogni innamorato ho vissuto momenti di esaltazione, eccitazione, passione intensa. Ma ho anche provato sulla mia pelle delusioni, ingiustizie, cattiverie.
La finzione cinematografica ti permette di gestire il racconto, puoi evitare di sprofondare nel tunnel che segna i momenti bui di una vita, ma puoi anche esorcizzarli attraverso una narrazione che porta alla luce l’origine di ogni male come in una seduta psicanalitica.
La boxe è spesso stata raccontata dal cinema. E lo ha sempre fatto con grande drammaticità.
“Toro scatenato” ha narrato, senza risparmiarci nulla, la vita di Jack La Motta. “Lassù qualcuno mi ama” ha fuso tragedia e sentimento grazie all’abilità di Paul Newman, Anna Maria Pierangeli e del regista Robert Wise. “Città amara” di John Huston è un raro esempio di poesia cinematografica. “Il colosso d’argilla” con Humphrey Bogart racconta i sordidi retroscena della boxe americana, quando a comandare era la mafia. “Million dollar baby” di Clint Eastwood è la rappresentazione di una triste, infinita solitudine in un mondo che non dà voce agli emarginati. “Hurrrican Carter” con Denzel Washington ci porta all’interno di una grande ingiustizia. Perfino “Rocky” di Sylvester Stallone, il primo della serie, sa raccontare con una calligrafia perfetta l’ambiente del pugilato americano negli anni Settanta. Non ci fosse stato il cruento e grottesco match finale, sarebbe stato un grande film.
Sono stato coinvolto in più occasioni nella recitazione. Ho fatto l’attore a teatro, in televisione, al cinema. L’ultima volta è accaduto poco tempo fa, ho avuto una parte ne “Il coraggio di vincere”, trasmesso in prima serata su Rai 1 e nato da un libro di Adriana Sabbatini e Liliana Eritrei: “The dancer”.
Mi piace recitare, mi sento a mio agio, mi sembra bello riuscire a comunicare su un palcoscenico dopo essermi espresso per vent’anni su un ring. Con questa riflessione il cerchio si chiude riportandomi all’inizio dei miei pensieri.
I pugili raccontano sul ring la loro storia, come lo scrittore fa su una pagina bianca. I pugni sono le parole, le finte e gli attacchi rappresentano le suggestioni. Il gong segna la fine di un match, di un libro. E anche di un film. Ma dobbiamo solo sapere aspettare. Presto ci sarà un altro pugile, un altro regista, un attore che verrà a raccontarci la vita.
Patrizio Oliva
- Oro all’Olimpiade di Mosca ’80 nei superleggeri, poi campione italiano, europeo e mondiale di categoria, è stato anche allenatore e commentatore tv. E pure cantante ed attore.