Qualche buontempone, sul sito di un giornale sportivo, ha commentato l’oro di Alice Amato alla trave con la frase “Effetto Bradbury”. E allora è meglio precisare. La vittoria dell’azzurra all’Olimpiade di Parigi, accompagnata dal bronzo di Manila Esposito nella stessa gara, è assolutamente legittima e meritata. Il paragone con un incredibile e famoso oro nello short-track ai Giochi invernali di Salt Lake City nel 2002 è ingeneroso e può giusto essere considerato una battuta. Ricordiamo che nella gara dei 1000 metri a vincere fu un australiano, Steven Bradbury, presente lì solo per far numero visto il suo scarsissimo livello internazionale, che approfittò di cadute apocalittiche degli avversari nei quarti di finale, in semifinale e in finale. E si parla di cadute di tutti quelli che gli stavano davanti, mentre lui stava concludendo la gara all’ultimo posto.
Detto che si può scherzare su tutto, nei termini giusti e senza offendere, il caso di Alice D’Amato non ha alcuna relazione con quella vittoria, sia nella valutazione tecnica, sia nell’andamento della gara. L’azzurra è una delle migliori del mondo, sia nella trave che in generale, tant’è che il suo contributo nell’argento della gara a squadre, sempre qui a Parigi, è stato determinante, così come quello di Manila Esposito. Quindi, si parla di atlete che, in ogni manifestazione importante, Olimpiadi, Mondiali o Europei che siano, “sono sempre lì” insieme alle prime, pronte a sfruttare l’occasione.
Ed è proprio questa la vera forza di tutta la nazionale italiana, costruita dal c.t. Enrico Casella. Tutte le ragazze hanno un livello minimo di qualità tecnica che è alla pari o quasi con le più forti del mondo, tant’è che le medaglie e i piazzamenti non sono più episodi dovuti al singolo talento, come nel caso di Vanessa Ferrari, ma una serie costante di prestazioni di grandissimo valore. L’argento a squadre a Parigi è la conseguenza diretta del quarto posto (che era bronzo alla vigilia dell’ultima rotazione della finale) di Tokyo. Non era un exploit isolato quello, non lo è il secondo posto adesso. E guardando anche i Mondiali, si nota lo stesso andamento. Fra l’altro, ancor più rilevante, la squadra italiana si mantiene nelle prime posizioni mondiali anche quando, per sfortuna, alcune sue atlete rappresentative sono assenti o non al meglio a causa di incidenti e infortuni. E’ il caso di Asia D’Amato, sorella di Alice, che si è rotta il ginocchio a maggio, durante l’esecuzione del corpo libero agli Europei a Rimini. E di Giorgia Villa, grande talento, che da anni deve combattere con problemi alla schiena che hanno limitato il suo impegno a soli due attrezzi, trave e parallele, in queste ultime ha dato il suo contributo alla squadra a Parigi.
Inquadrata in questi termini la situazione, si può anche riconoscere che nell’oro di Alice D’Amato c’è una componente di errori delle altre atlete. Sono cadute, fatto che comporta un punto in meno nel giudizio della giuria, oltre ad altri decimi in meno per la mancata esecuzione del movimento: le statunitensi Sunisa Lee e Simone Biles, la brasiliana Julia Soares e la romena Sabrina Voinea. La cinese Zhou Yaqin non è caduta ma in una fase dell’esercizio ha messo le mani sulla trave dopo uno sbilanciamento, il che comporta la perdita di mezzo punto, anche se nel suo caso i giudici l’hanno penalizzata per altre imprecisioni tanto da far dire a Igor Cassina, commentatore sulla Rai, che “sono stati un po’ fiscali”. In ogni caso, le cadute hanno anche una ragione, vale a dire la ricerca estrema della difficoltà: 6.200 per Biles e Lee il livello riconosciuto, 6.600 per Zhou. Alice D’Amato e Manila Esposito sono state più accorte e hanno limitato a 5.800 la difficoltà dei loro esercizi. Così, c’è un livello tecnico leggermente inferiore, ma una esecuzione più pulita, tant’è che le azzurre in finale hanno il punteggio più alto di tutte in questa componente: D’Amato 8.566, Esposito 8.200 (Zhou 7.500, Biles 7.200, per rendere meglio l’idea). Come si vede, nel conseguimento della medaglia, conta anche l’intelligenza di saper valutare i propri limiti e la realtà della situazione. In ogni caso, entrambe le azzurre si sono migliorate rispetto al punteggio ottenuto in qualificazione, segno che in finale non hanno viaggiato col freno a mano tirato.
Questo ovviamente ha causato un punteggio non altissimo, il più basso da quando c’è questo nuovo sistema (dopo il 2006) nella finale della trave alle Olimpiadi (2008 Shawn Johnson 16.225; 2012 Deng Linlin 15.600; 2016 Sanne Wevers 15.466; 2020 Guan Chenchen 14.633) e il terzo più basso nelle ultime 14 edizioni dei Mondiali (peggio Hazuki Watanabe con 13.600 nel 2022 e Pauline Schaefer con 13.533 nel 2017), ma per tutte le ragioni qui spiegate è da considerarsi non indicativo di una qualità tecnica inferiore. Il che fa di Alice D’Amato una degna vincitrice dell’oro.
Resta solo una considerazione sull’atleta più controversa della ginnastica, Simone Biles, esaltata da tutti a dispetto del vantaggio irregolare che ha sulle avversarie grazie al medicinale che ha assunto ogni giorno da quando aveva 15 anni, il Ritalin (sostanza dopante, che però può essere autorizzata da Federazioni e Cio in caso di prescrizione medica), con dosi anche maggiorate, che possono usare solo gli americani perché nel resto del mondo i medici non lo prescrivono ed è addirittura un reato il suo solo possesso, come in Giappone, coincidenza singolare con i problemi avuti dalla Biles a Tokyo nel 2021, proprio lì dove non poteva prenderlo. A Parigi la Biles è stata protagonista dell’esercizio alla trave in maniera inusuale. Oltre alla caduta, che le è costata un punto nel giudizio dei giudici, ha avuto una penalizzazione di 0.300 perché alla fine dell’esercizio non ha salutato la giuria, come prescrive il regolamento, segno di nervosismo per aver fallito la prova, tant’è che anche nella successiva finale al corpo libero ha mancato l’oro per due uscite di pedana con entrambi i piedi che hanno causato una penalità totale di 0.600. Il fatto più stupefacente è che per avere il suo punteggio alla trave c’è stata un’attesa di 5 minuti, assolutamente inspiegabile se non con il sospetto che la giuria si fosse spaccata: metà che voleva applicare le penalizzazioni, metà che voleva “salvare” la Biles per consentirle di stabilire il record di 5 ori in una edizione delle Olimpiadi (ne aveva vinti 4 a Rio 2016, quando gli hacker russi scoprirono che assumeva il medicinale vietato dalle norme antidoping). Alla fine, ha vinto “la banda degli onesti”, ma il caso Biles continua a dimostrare che ogni sport, pur di avere la prima pagina rispetto agli altri, ha fatto suo il principio falsamente attribuito a Machiavelli: “Il fine giustifica i mezzi”.
Dal nostro inviato a Parigi Gennaro Bozza