Valentino Rossi ha gettato la spugna. Valentino Rossi ha gettato la spugna… L’8 agosto, l’animo di Roger Federer sarà un mare in tempesta. Fiocheranno gli auguri di persone più o meno note, verrà travolto dai ricordi, si accorgerà che ancora una volta s’è commosso e gli è spuntata una lagrimuccia nel soffiare le 40 candeline sulla torta mentre tutt’attorno sarà festa e chiasso, baci e abbracci, e lui sfodererà il suo sorriso beato e bonario da bravissimo testimonial pubblicitario. Dentro, però, sarà percosso dalla solita domandina che gli rimbalza da tempo fra cuore e cervello: andata e ritorno, ritorno e andata, senza una risposta chiara. Magari col sottofondo della voce intensa di Josè Feliciano: “Che sarà, che sarà, che sarà, che sarà della mia vita chi lo sa”.
Domani significa più che mai dubbi, incertezze, paure: avversari nuovi per un fuoriclasse, campione di tutto, ammirato da tutti, guardato da tutti. I 40 anni di Roger sono molto più intensi di altri 40 anni, ne contengono 20 di intenso sport agonistico, che poi sono tornei nei quali molti si iscrivono e perdono presto, mentre lui quasi sempre è arrivato fino in fondo, ha giocato 4/5 partite a settimana, ha spinto sull’acceleratore, s’è sentito tirare e scalciare dal motore e dalla carrozzeria di quella sua magica macchina, chiamata fisico, ed è sempre scattato ed è ripartito, sempre sicuro di ste del futuro.
Lo svizzero delle meraviglie ha sempre avuto un gran rispetto del corpo e della fortuna, ha dribblato a lungo gli infortuni mentre vedeva gli amici, soprattutto Tommy Haas e poi Juan Martin Del Potro e Rafa Nadal, che si fermavano troppe volte dal meccanico e ci restavano anche a lungo.
Finché, piano piano, anche lui, ha cominciato a cedere con le sue meravigliose ginocchia: la prima volta, curiosamente, scivolando sul pavimento bagnato mentre lavava uno dei quattro gemelli, e poi ancora e ancora, fino al doppio intervento in artroscopia che lo sta angustiando ultimamente rubandogli il sorriso, il coraggio, la fiducia, la tentazione fortissima di riprovarci davvero, di forzare ancora nell’intimo il fenomenale atleta Roger Federer.
Ecco, al di là della cifra – 40 anni- al di là della storia che si porta dietro, dei 103 titoli di singolare fra cui spiccano i 20 Slam co-record con Nadal e Djokovic, al di là della routine che sicuramente sfibra, al di là delle motivazioni che inevitabilmente scemano, al di là della famiglia che chiede sempre più la sua presenza, il problema fondamentale del campione è l’incertezza.
Quante volte, infatti, a Wimbledon, nel torneo più famoso dello sport, che ha vinto otto volte in dodici finali, ha dovuto compensare, di gambe a uno scherzo della palla, un cattivo rimbalzo, una beffa del net? Ebbene, lui sa, il suo amico-coach, Ivan Ljubicic sa, che all’ultima edizione, a luglio, contro il solido e degnissimo Hubert Hurkacs il dolore più grande non è stato il 6-0 finale che ha rimediato quanto la titubanza sulla gamba destra, quell’istintivo auto-frenarsi, a rete, in un allungo che, in altri tempi, sarebbe stato naturale.
Quel flash, quell’unico frammento dei quarti comunque quasi miracolosi dopo un’assenza così lunga dalle gare, stato un piccolo-grande gesto che s’è incuneato nella sicurezza e nell’essere stesso del Magnifico, e gli duole più ancora di qualche frammento di cartilagine che continua a vagare nel ginocchio. Più fastidiosa della feroce motivazione di Djokovic, a caccia del Grande Slam, più snervante della resilienza di Nadal, che sta soffrendo l’ennesimo infortunio al solito piede, più preoccupante dei giovani rampanti sempre più sfrontati e corazzati.
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La verità è che Roger per la prima volta ha paura di Roger, dello stop improvviso, dell’addio costretto, del malinconico getto della spugna.
Come tutti gli atleti, e ancor di più i campioni, vorrebbe decidere lui come e quando salutare il palcoscenico, ma non riesce a ritrovare quella condizione di gara che gli restituisca un po’ di fiducia per riprovarci ancora, in uno Slam, per verificare se davvero nel profondo del suo io quella fiammella può diventare fiammata.
Ecco così che, al di là della retorica che sicuramente travolgerà i media in questi giorni, l’immagine dell’amico Federer, compagno fedele dei nostri ultimi vent’anni, artista ed agonista ideale, campione senza macchia e senza paura, ci arriva sbiadita, quasi come se il Magnifico giocasse ancora con le palle bianche, ormai lontanissimo da questo tennis così colorato dei giorni nostri.
Forse, insomma, un po’ come Valentino Rossi, ce lo siamo già persi, ci siamo già allontanati, lui da noi e noi da lui, nel momento stesso in cui non l’abbiamo più sentito Superman, superiore agli umanissimi limiti e alle umanissime disgrazie. Magari quel Roger Federer è finito insieme ai due match-point che ha fallito nella finale di Wimbledon 2019 contro Djokovic.
Ne aveva mancati a grappoli anche prima, ma aveva sempre garantito sulla parola della sua classe che sarebbe rimbalzato oltre, ancora, per regalarci altre imprese, altri miracoli. Stavolta, invece, sembra quasi invitarci a ricordare quello che è successo prima, una carriera ineguagliabile sotto tutti i profili, coronata dalla la straordinaria finale degli Australian Open 2017 contro Rafa, dopo la leggendaria rimonta su se stesso.
Tanti auguri, Roger, campione di tutti.