Rino Tommasi se ne va a 90 anni, lasciando una vita di sport dietro di sé e una montagna di esperienza dirette da uomo e giornalista felice. E io posso andare fiero di averlo accompagnandolo per un quarto di secolo come inviato, in tandem, della Gazzetta dello Sport, scoprendo giorno dopo giorno, di torneo in torneo, chi fosse veramente quel personaggio che incuteva tanto timore e rispetto dall’alto delle sue tante conoscenze e della riconosciuta autorevolezza. Così diversi, ci siamo ritrovati nella professionalità. Come sottolineava il direttore della Rosea dei record anni ’80-’90, Candido Cannavò, ci fondevamo e compensavamo come un riuscitissimo cocktail. Rino era drastico, intransigente, senza fronzoli e colori intermedi, granitico nelle sue convinzioni, lo statistico sportivo per eccellenza, sorretto da una memoria prodigiosa e quindi da numeri che arricchiva e aggiornava continuamente, chino sui mitici quaderni a quadretti nelle sale stampe di tutto il mondo, per sostenere con inappuntabili statistiche i suoi concetti e i rilievi storici, sui due sport più amati, pugilato e tennis. Io ero il cronista curioso, di 23 anni più giovane che, quando Tommasi lasciò la Gazzetta, nel 1981, non ebbe paura di coesistere col giornalista sportivo più riconosciuto che aveva intrapreso un’altra strada professionale, continuando a seguire lo sport da inviato, in 13 Olimpiadi, almeno 400 incontri mondiali di boxe, 149 tornei dello Slam di tennis e 7 Superbowl. Come ha sintetizzato nel titolo di un libro che è un po’ la sua autobiografia: “Da Kinshasa a Las Vegas via Wimbledon. Forse ho visto troppo sport”.
SPORTIVO
Conoscendolo più da vicino, pur nelle brevi parentesi che si concedeva al di fuori del lavoro, Rino si è mostrato soprattutto, un sincero amante dello sport, sulla scia degli esempi del padre, Virgilio, e dello zio, Angelo, che avevano partecipato ai Giochi Olimpici di salto in lungo, e delle esperienze dirette proprie, da tennista, con quattro titoli di campione italiano universitario, e due medaglie di bronzo ai Mondiali Studenteschi. Risultati di cui andava fiero che ricordava continuamente nel dettaglio. Dopo la laurea in Scienze Politiche con una tesi sull’organizzazione internazionale dello sport, da giornalista, sin dai 19 anni, aveva avuto un occhio molto attento alle statistiche, agli amatissimi numeri, seguendo i canoni del giornalismo statunitense. Anche se la parentesi umanamente più intensa era stata quella che aveva vissuto in parallelo, fino al 1970, come organizzatore di pugilato, contribuendo al trasloco da Milano al palasport di Roma dei più grandi eventi nostrani, incentrati negli anni 60 su Rinaldi, De Piccoli, Burruni e quindi Mazzinghi e Benvenuti. Quando ne parlava gli si accendevano gli occhi, ancora rapito da quelle storie appassionanti. Un mondo che aveva lasciato quando aveva capito che la tv stava ormai prendendo il sopravvento. Quella, tv che nel 1981 lo rapì per sfruttare la sua passione pionieristica degli sport americani, dal football al baseball, promuovendolo il primo direttore dei servizi sportivi di Canale 5 e dieci anni dopo di Tele+, oggi Sky Sport.
LA SVOLTA TV
Lì nacque il personaggio popolare Rino Tommasi che varò la prima, assortita e riuscitissima, coppia di telecronisti con l’amico Gianni Clerici, col quale, nelle pause canticchiava Bingo Bango Bongo, soprannominandosi a vicenda “ComputeRino” e “Dottor Divago”. Così, complice la penuria di atleti di vertice, il tennis italiano, almeno fino al 2010, s’è identificato con quel duo televisivo, con l’ironia di Gianni e le espressioni di Rino che sono diventate neologismi come “la prova del 9”: il delicatissimo match successivo a una importante vittoria, “circoletto rosso”: un punto spettacolare, “3-0 pesante”: con due break, “dritto anomalo”: a sventaglio, “punteggio periodico”: identico in tutti i set, o “isoscele”: col primo e il terzo set più basso, “gli ha fatto fare il tergicristallo”: quando l’avversario correva di qua e di là passivo senza poter reagire. Qualche giudizio troppo drastico e definitivo, unito all’abnorme potere mediatico creò qualche problema nei rapporti con l’ambiente, ma Rino andava avanti come un caterpillar anche quando abbandonava un torneo in corso per uno-due giorni per volare negli Stati Uniti, magari via Parigi per prendere il Concorde, e cantare le gesta del fenomeno Mike Tyson. Poi rientrava distrutto ma felice, dopo aver pronunciato al microfono l’iconico “sul mio personalissimo cartellino” con cui rileggeva i punti che aveva assegnato ai pugili e li confrontava con quelli degli arbitri. Unico, inesauribile, finché la malattia non gli ha fatto gettare la spugna, lasciando la moglie Veronica, i figli Guido e Monica, e un’eredità insostenibile.
Vincenzo Martucci (Tratto dal messaggero del 9 gennaio 2024)