Richmond, prima periferia a sud ovest di Londra. Nel tempio di Twickenham l’Italia sfida l’Inghilterra nel quarto turno del Sei Nazioni. La partenza è da brividi: 80.000 tifosi cantano ”God save the King”, calcio d’inizio e alla prima azione d’attacco gli inglesi vanno subito una meta. L’atmosfera sugli spalti azzurri è già funerea, ma l’Italia è decisa a evitare la mattanza romana di due settimane prima contro la Francia. Gli azzurri rispondono subito, con un’azione corale dove ognuno sa esattamente cosa deve fare: Garbisi sceglie il calcetto per superare la linea di difesa inglese, Brex raccoglie, si fionda in avanti e restituisce a Paolo che serve Monty Ioane. Anche l’ala melting pot (italiano dal 2022, ma australiano di nascita e con origini samoane) si affida al calcetto avanzante che termina in area di meta, dove Capuozzo vola davanti ai rapaci inglesi, arriva per primo e schiaccia in meta. Meta!!!! Che magnifico gioco di squadra, che esempio di organizzazione e rispetto dei ruoli da parte di ogni azzurro.
Giuseppe Laregina, uomo d’impresa sotto diversi punti di vista (azionista, consulente, da anni impegnato tra Vendite e Marketing), da parecchi anni lavora alla Lindt & Sprungli, società svizzera che almeno per il primo nome non ha bisogno di presentazioni (semmai di qualche generoso assaggio). Oggi guida il progetto “Giovani senza Capo”, un ambizioso tentativo di formare giovani professionisti sulla cultura d’impresa, in questa fase industriale in continua evoluzione.
Laregina, dal suo profilo Linkedin, ha parlato del rugby come di uno sport che insegna la capacità organizzativa e il rispetto dei ruoli, in campo come in panchina. Niente male per la palla ovale che secondo la leggenda è nata 202 anni fa nel college di Rugby, ha vissuto molti anni nel dilettantismo e ora è uno sport professionistico da svariati milioni di euro. Ma non basta: è anche preso d’esempio dal mondo del lavoro, utile per trasmettere i concetti di rispetto reciproco e chiarezza dei ruoli. Efficace il modo di esprimersi di Laregina: “La capacità di fare ognuno il proprio lavoro all’interno dello stesso contesto nel rispetto delle diverse responsabilità? Il rugby questo concetto lo conosce bene e lo applica al meglio. In tanti luoghi chiamati lavoro si gioca come all’oratorio. Tutti dietro la palla, un gran polverone e alla fine nessuno capisce più nulla di cosa stia succedendo. Il chi fa cosa diventa l’ultimo dei problemi. Agitarsi, urlare, sbraitare pare sia lo schema di gioco da applicare. Risultati? Pochi. Giusto il caos e poi tutti a casa pronti per la zuffa del giorno dopo”.
Verrebbe quasi da immaginare il nostro consulente accompagnato da un gigante buono come Michele Lamaro, che interviene di fronte ai giovani lavoratori: “Sapete perché il rugby è un esempio di organizzazione e rispetto dei ruoli? Perché se fai di testa tua, magari un’iniziativa personale palla in mano ma senza il sostegno dei compagni, inevitabilmente perdi subito il pallone. A quel punto o sei a terra dopo la tranvata degli avversari che ti hanno placcato (ma si legge “disintegrato”), oppure te la sei cavata alla grande e hai evitato di farti male: ecco, per quello ci sono i compagni di squadra, che ti accoglieranno negli spogliatoi con fare non proprio benevolo. Insomma, il rispetto dei ruoli lo impari prestissimo, perché la motivazione non è il risultato, ma l’istinto di autoconservazione.”
In questo strano sogno ad occhi aperti, per scongiurare subito un clima di terrore tra i collaboratori prenderebbe la parola il più indicato a farlo – perché lo fa di mestiere -, coach Gonzalo Quesada: “Non ascoltate troppo il capitano: del resto, se provate a fare come lui un’ottantina abbondante di placcaggi in due ore di battaglia, è normale essere fissati con l’autoconservazione… Scherzi a parte, il rugby è uno sport complesso, come lo sono le organizzazioni che competono sul mercato del lavoro. Per dirla in modo tecnico, come reciterebbe con precisione il relatore doc di un convegno, in un’organizzazione sportiva o industriale è fondamentale avere bene chiaro il flusso logico delle informazioni e quello produttivo delle materie prime o del movimento della palla durante il match). Questa conoscenza è la base sulla quale si costruisce il rispetto reciproco dei ruoli, che si traduce in campo ma che deve anche saper essere versatile al massimo per prendere le contromisure dagli avversari. In un’azienda non è tanto diverso. Anche lì ci sono avversari molto competitivi, risulta fondamentale sapere cosa facciamo noi per poi capire cosa fanno gli altri, mettendo in campo analoghe contromisure. Sì, alla fine giocare a rugby o lavorare in un’impresa metalmeccanica non è così diverso”.
Eccoci qua, siamo arrivati alla perfetta simbiosi tra due mondi così distanti. Adesso gli occhi dei presenti sono raggianti, fiduciosi di saper tradurre il tutto sulla realtà quotidiana, ora addirittura più simile a un gioco che a un lavoro. Tutti raggianti tranne uno, Mario Cardo, che con un cognome così è un grande fan del rugby scozzese (la Scozia della palla ovale si chiama anche Nazionale del Cardo, l’ortaggio simbolo degli Highlander). Lui conosce bene il piacere di giocare a rugby, ma anche l’odio di assemblare componenti sempre uguali, magari proprio quando si sta giocando una partita da non perdere… Cardo ha ascoltato Quesada, all’inizio con interesse e simpatia, alla fine con rabbia e l’inconfessabile voglia di farlo fuori. Perché va bene sottolineare la chiarezza delle varie attività dell’organizzazione, va benissimo associare al rugby il rispetto dei ruoli… ma no, lavorare in fabbrica NON è per nulla uguale a giocare a rugby. Maledetti.