Ah, se l’Italia fosse come Capo Verde! Per le spiagge infinite, il clima tropicale, il sole e il caldo tutto l’anno? No, perché Capo Verde ai Mondiali ci va! A meno di un cataclisma sportivo, ossia la mancata vittoria nell’ultima partita di qualificazione oggi contro Eswatini (l’ex Swaziland, tra Sudafrica e Mozambico), ultimo e da tempo eliminato. Le 530.000 anime dell’isola africana in pieno Atlantico, a 500 km dalle coste del Senegal, sono pronte a sognare. Con la loro nazionale in testa al gruppo D delle qualificazioni africane alla Coppa del Mondo 2026 con 20 punti, due in più del Camerun secondo. Mentre gli Azzurri di Rino Gattuso possono ambire al massimo a giocarsi i playoff, i Tubarões azuis (gli “Squali blu”) sono a un passo dal fare la Storia: sarebbe la prima Coppa del Mondo per Capo Verde, la seconda nazionale meno popolosa a partecipare alla fase finale dei Mondiali di calcio dopo l’Islanda. Un autentico miracolo sportivo per la squadra n.70 del ranking FIFA e per uno stato molto povero, che tira avanti con pesca e turismo e dove il 40% della popolazione vive con 2 dollari al giorno. Come è stato possibile?
Passione smodata, senso di appartenenza a una comunità e una buona dose di follia. I giocatori della nazionale vengono dall’Europa, dai campionati – fra i tanti – di Francia, Olanda, Portogallo, Turchia e Spagna. Sono i figli degli immigrati dell’isola africana e hanno scelto di rappresentare la nazione dei genitori. Lo ha spiegato al Times l’allenatore ed ex difensore di Capo Verde Pedro Leitão Brito detto ‘Bubista’: “Vogliono venire in nazionale e non lo si può dare sempre per scontato. Vengono da lontano – molto spesso in classe economica – ma quel che abbiamo da offrire è una buona atmosfera, un legame e una buona combinazione tra giocatori esperti e giovani”.
Tra loro il difensore del Villarreal Logan Costa, il terzino del Trabzonspor (Turchia) Wagner Pina, l’ala del Vitoria Guimaraes (Portogallo) Telmo Arcanjo, quella dell’Igdir (Turchia) Ryan Mendes, la punta dell’Ibiza Bebè, il portiere del Al-Hazem (Arabia Saudita) Bruno Varela, il centrocampista del PEC Zwolle (Olanda) Jamiro Monteiro, per citare i giocatori più importanti. Oltre a Dailon Livramento, di proprietà dell’Hellas Verona e ora ai portoghesi del Casa Pia, autore del gol della recente vittoria contro il Camerun. Un meltinpot di culture che hanno trovato una sintesi nelle origini comuni.
L’impresa di Capo Verde nel calcio ricorda altre imprese ai limiti del reale nella storia dello sport. Il riferimento non è tanto a trionfi del tutto inattesi, arricchiti da particolari che ne alimentano il mito, come la vittoria della Danimarca all’Europeo del 1992. Un torneo che non avrebbe dovuto nemmeno disputare ma che giocò in sostituzione della Jugoslavia martoriata dalla guerra. I danesi vinsero contro ogni pronostico, superando in finale nientemeno che la Germania campione del mondo in carica, dopo aver interrotto le vacanze e col loro allenatore che fino al giorno prima del torneo era impegnato a ristrutturare casa… Oppure come un altro sbalorditivo titolo continentale, quello della Grecia catenacciara e guastafeste del 2004, che in finale contro il predestinato Portogallo padrone di casa ammutolì lo Stadio da Luz di Lisbona col gol del carneade Charisteas. No, qui parliamo di altro, di qualcosa del tutto illogico e inverosimile. La partecipazione di un pugno di isolette di pescatori in mezzo all’Atlantico alla massima competizione dello sport più popolare del mondo. Capo Verde ai Mondiali di calcio sarebbe una contraddizione in termini, un folle paradosso, un ossimoro sportivo, come un ghiaccio bollente. Non si è mai visto…
O sì? Beh, più che il ghiaccio diventare bollente, una volta si è vista un’isola bollente giocare sul ghiaccio. Olimpiadi invernali di Calgary 1988. Quelle per noi italiani della Bomba, Alberto Tomba da Castel de’ Britti, Bologna, che fa fermare San Remo per permettere all’Italia nazional popolare di assistere in diretta in prima serata al trionfo d’oro nello Slalom Speciale, pochi giorni dopo quello del Gigante. Ma anche quelle della Giamaica nel torneo di bob a quattro (a anche nel bob a due). Un’isola dei Caraibi alle Olimpiadi invernali. Non si era mai visto. Eppure da un’intuizione (verrebbe quasi da dire un’allucinazione…) di un membro dell’ambasciata americana a Kingston -George Fitch, che si era messo in testa che una gara di carretti a spinta fosse assimilabile a dei bob lanciati sul ghiaccio: era completamente pazzo, non c’è dubbio… – nacque un unicum sportivo divenuto nel tempo una realtà consolidata. La Giamaica da Calgary 1988 ha partecipato nel bob a otto edizioni dei Giochi Olimpici (cinque nel bob a 4, tra cui l’ultima Olimpiade di Pechino 2022, e sette nel bob a due), saltando solo Torino 2006.
Tutto ebbe inizio con Fitch che per realizzare la sua lungimirante allucinazione propose l’idea ai velocisti di atletica leggera impegnati nelle qualificazioni alle Olimpiadi estive. Rifiutarono tutti, probabilmente convinti di avere davanti, appunto, un matto. Ma i matti non si danno mai per vinti, così l’americano, che nel frattempo aveva trovato un altro senza rotelle come lui, il connazionale affarista William Maloney, pensò bene di rivolgersi all’Esercito. Dove invece di ricevere una logica e naturale porta in faccia il colonnello Ken Barnes – un terzo svitato con i gradi sul petto… – accolse con entusiasmo la proposta e riuscì a reclutare due velocisti, il capitano dell’aeronautica Dudley Stokes e il riservista Michael White, e un atleta degli 800 metri, il tenente del secondo battaglione Devon Harris. Si aggiunsero poi altri tre corridori picchiatelli, così Fitch poté finanziare e dare il via all’impresa, che ispirò anche il film di successo della Disney “Cool running” (nel doppiaggio italiano intitolato “Quattro sotto zero”). Anni dopo Stokes raccontò con grande efficacia quei giorni incredibili: “Sentii parlare del bob nel 1987. Ne vidi uno per la prima volta a metà settembre di quell’anno. A ottobre ci fu la prima volta sul ghiaccio, in una pista di pattinaggio a Lake Placid. Salii a bordo poco dopo. A febbraio eravamo alle Olimpiadi”.
Miracoli così succedono una volta ogni 40 anni, ma c’è da giurarci che non sono finiti qui: dopo la Giamaica e Capo Verde, quale altra squadra di folli sognatori stupirà il mondo?
(foto tratta da diretta.it)
