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Sport di contatto

“This is rugby”, e l’Italia è ancora inferiore. Troppo!

Da Carlo Gobbi 15/02/2018

Le ultime batoste contro Inghilterra ed Irlanda confermano il ruolo di ultima della classe al Sei Nazioni. Il rugby da noi raccoglie quello che può. Entusiasmo, rispetto, interesse. Ma la situazione è critica

 Sei mete dagli inglesi. Otto mete dagli irlandesi. Due pesanti tariffe: 46 con l’Inghilterra, che avrebbe potuto tranquillamente valicare i 50 punti all’Olimpico; 56 con l’Irlanda a Dublino e bastava niente per sorpassare quota 60. Italia, che succede? Succede che siamo inferiori. In tutto. Tecnica, tattica, fisico, mentalità, capacità di stare in campo e di occuparlo, incapacità di giocare con la palla in mano, debolezza in difesa, specialmente nei primi placcaggi. E poi ci aggiungi l’inesperienza di tanta gioventù forzatamente impiegata tutta in una volta. Provocata dal massiccio esoso dei veterani verso la meritata pensione, in tribuna.
   Il Sei Nazioni non è una festa. O meglio, lo è per il pubblico. Specialmente quello non di matrice rugbystica, che ha scoperto valori e usi sconosciuti per chi frequenta il mondo del calcio.  Ma per chi va in campo a metterci la faccia con la sua maglia azzurra, al di là dell’onore, è una battaglia. Purtroppo persa in partenza. O quasi. Perché il Championship è una giungla verde, dove ad ogni passo, tu italiano, che vieni da un altro mondo, scopri l’insidia di un gioco che è stato codificato, inventato, perfezionato, insegnato, applicato e propagandato nel globo dagli inglesi. O se preferisci, dai britannici. E tu sei e sarai sempre l’intruso, ammesso a corte al banchetto. Con un compito unico: beccarle sode. In 19 anni, l’Italia ha disputato fin qui 92 partite. Quante vittorie? Dodici! Tra cui, la prima, incredibile, sulla Scozia nel 2000 alla riapertura del Flaminio. Un successo inatteso che illuse un po’ tutti. Federazione, società, ambiente, stampa, pubblico. Anche perché quella Scozia era reduce dall’ultimo successo nel torneo, appena l’anno precedente. E noi, al debutto, subito vincitori. Ma quella era la nazionale di Giovanelli e Properzi, di Dominguez e Troncon, dei gemelli Cuttitta e De Carli, autore della famosa meta della vittoria. Dopo… Beh, dopo è stata ben altra musica. Fra alti, pochi, bassi, tanti, cucchiai di legno e sconfitte, anche pesanti, in serie. Avete voluto la bicicletta,  giocare con i grandi del rugby? Eccovi serviti.
  Oggi la situazione è critica. Conor O’Shea, 46enne tecnico irlandese, ha raccolto con coraggio una pesante eredità e ha cercato subito di calarsi nella nostra realtà. Che non è certo dorata. Perché in Italia, il rugby è sport di nicchia, piace al grande pubblico, ma viene praticato in un Paese dove uno sport solo ha il dominio assoluto: il calcio. Qualche esempio? Basta guardare la stampa scritta, in avvicinamento ai match. Due notizie, la formazione, presentazione, partita. Ritorno zero, quando si perde. Cioè quasi sempre. Pure nei quotidiani sportivi, dove il giornale del lunedì è tradizionalmente quello del calcio. Ma il Sei Nazioni si gioca quasi sempre di sabato. Uguale: calcio, calcio, calcio. Anticipazioni, interviste, dichiarazioni. A volte, la sera della domenica pure esilaranti in base ai risultati conseguiti. Stampa parlata, sottozero. Il canale 52 che trasmette la partita in diretta avvalendosi di una coppia eccezionale di telecronisti quali sono Antonio Raimondi e Vittorio Munari, nulla o quasi. Se un telegiornale dedica 20-30 secondi alla partita, è già tanto. Magari la prima volta. Poi dalla seconda, zero assoluto.
   Inutile andare controcorrente. Il rugby in Italia raccoglie quello che può. Entusiasmo, rispetto, interesse. Ma i timoni del potere sono in mano ad altri. E poiché i risultati fatalmente non arrivano, ecco che bisogna accontentarsi. Laddove non si vince, in Italia non c’è spazio, interesse, attenzione. E come si fa a vincere quando il nostro rugby si affida a due franchigie, Treviso e Parma, a un gruppetto di giocatori emigrati su campionati esteri per migliorare. Mentre il campionato italiano naviga sulle Tuttenotizie della Gazzetta, nel più completo e assoluto disinteresse. Dimenticando un concetto fondamentale: che la nazionale viene sempre costruita dal campionato. Così è nel basket, nel volley, nel calcio. Nel rugby invece si punta sulle Accademie, che sfornano giovani come la scuola di giornalismo della Lombarda. Da immettere nella gabbia dei leoni di uno stadio di rugby contro squadre che in questo sport sono cresciute fin dai denti da latte.
   Venerdì prossimo si giocherà con la Francia a Marsiglia. Terzo match di un Sei Nazioni che rischia di consegnarci l’ennesimo, l’ottavo se abbiamo contato bene, cucchiaio di legno. Non gettiamo la croce sui ragazzi che ci mettono la faccia. Ma il gap con chi pratica il rugby da più di un secolo è evidente. In particolare i match tra le squadre britanniche non sono normali partite di rugby. Giancarlo Dondi, presidente federale fino a sei anni fa, sosteneva che: “Ogni partita fra di loro, è la partita della vita”. Per i nostri ragazzi, è già  un’impresa arrivare alla fine della gara a testa alta. Anche se nel carniere gli avversari ti hanno infilato tot mete e tot punti. Ma è la dura lex del Sei Nazioni. Vuoi partecipare? Nessuna pietà. This is rugby. Questo è rugby.
Carlo Gobbi
Tags: “This is rugby”, 6 nazioni, carlo gobbi, e l’Italia è ancora inferiore. Troppo!

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Nota sull’autore: Carlo Gobbi

È il giornalista più poliedrico del panorama nazionale. Oltre a 7 Olimpiadi, 6 Mondiali e 15 Europei di pallavolo, e 139 test match di rugby, ha seguito oltre 20 Mondiali ed altrettanti Europei di ginnastica, judo, hockey, ghiaccio, pallamano, pesi, tiro.

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