Premessa: chi scrive, per ovvie ragioni anagrafiche, non ha potuto assaporare le “Notti Magiche” di Italia ’90. Ciao, i lavori di posa della copertura del Meazza, l’inaugurazione del San Nicola a Bari o la Nazionale inglese confinata a Cagliari per timore degli hooligans sono immagini traballanti come quelle delle VHS appena infilate nel videoregistratore. Ricordi di un’età aulica del nostro calcio. L’ultimo grande evento sportivo che il nostro paese è riuscito ad organizzare. Tempi che (forse) non torneranno più.
Un Mondiale che, pur uscendo dall’edonismo anni ’80 e proiettandosi verso i convulsi e nichilistici anni ’90, seppe conservare un volto umano. Il volto di un uomo che non ha mai rinnegato il ragazzino che tutti abbiamo nel nostro intimo. Una volta, mi sono imbattuto in questo aforisma: “Il bambino che non gioca non è un bambino, ma l’adulto che non gioca ha perso per sempre il bambino che era dentro di sé”. Schillaci questo errore non l’ha mai commesso. Totò ha sempre giocato a calcio come ai tempi dell’Amat Palermo: guadagnandosi il posto in squadra. Un giocatore dal temperamento fanciullesco. Quel volto d’uomo che era davvero in grado di sciogliere in un abbraccio la follia. I suoi occhi spiritati, sbarrati, grandi come palle da biliardo erano davvero pronti a inseguire un gol. Occhi immutabili, occhi di chi è in tranche agonistica. Un momento magico durato un mese esatto. Occhi di chi sapeva che i grandi momenti derivano da grandi opportunità.
L’opportunità è essere seduti, quasi in disparte, sulla panchina dell’Olimpico vicino ad un giovane Roberto Baggio, suo compagno alla Juventus. È una serata d’afa e canicola estiva, in campo Italia e Austria. I nostri avversari dipinti come vittima sacrificale dalla stampa e pubblico romano, in barba alla sottile arte della scaramanzia italica, un po’ troppo festante. Ed ecco che la partita, come da copione in quel Mondiale alle volte molto deludente sul piano delle aspettative e quindi ancora più umano ai miei occhi, s’inchioda, s’avviluppa su se stessa. “La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione” – affermava Seneca. Il talento di saper leggere il momento: prendere il posto di Andrea Carnevale, decisamente con le polveri bagnate quella sera, trovarsi piazzato al momento giusto nell’area di rigore avversaria e tramutare in gol il traversone di Vialli, uno che poi sarà perseguitato per tutto il torneo dall’ombra di questo venticinquenne stempiato e dal fisico non eccezionale.
Questa è la prima rete in maglia azzurra di Totò Schillaci. Ne seguiranno altre cinque e il conseguente titolo di capocannoniere del torneo. Al Pallone d’Oro di France Football otterrà un secondo posto. Cuore caldo e mente fredda. Nei piedi la frenesia come di squalo che fiuta la pastura, senza mai dimenticare, però, la disciplina di chi fa parte di un gruppo, di chi è gregario nell’animo. La gioia, l’emozione, lo stupore di avercela fatta. Il prato dell’Olimpico come il cemento dei campi delle periferie palermitane. Il pallone da calciarsi con tutta la forza che si ha in corpo.
Come l’infanzia, però, anche la carriera ad alti livelli di Totò Schillaci è scivolata via. Doveva durare di più. Doveva durare tanto quanto quelle partite infinite che si disputano dopo essere usciti da scuola in grado di essere interrotte solamente da un vetro rotto, un pallone incastrato sotto un’automobile o il grido stentoreo di una mamma proveniente dal balcone di casa. E, allora, facendo un esercizio di fantasia, siamo liberi di pensare che per Totò sia appena finito il primo tempo di una partitella tra amici e che presto tutto riprenderà come per magia.