Per capire quanto l’atletica sia l’icona delle Olimpiadi basterebbe chiedere anche a chi non è appassionato di sport quale sia l’immagine dei Giochi che più gli è rimasta impressa. La risposta può variare a seconda dell’impresa che ha suscitato più emozione, che ha colpito maggiormente la fantasia, ma una cosa è certa: è legata all’atletica. E quando andiamo a ricordare queste leggende ci accorgiamo che non “appartengono” solo allo sport, ma riguardano l’umanità in generale, sono il simbolo di epoche, le emozioni che aiutano a capire chi siamo, l’esempio per diventare persone migliori nella vita.
Due immagini, in particolare, possono rappresentare il significato delle Olimpiadi, dello sport, della vita: Jesse Owens e Abebe Bikila. Owens vince 4 ori nel 1936 a Berlino (100, 200, 4×100, lungo) proprio davanti a Hitler e ai nazisti da cui è considerato, per la sua pelle nera, “di razza inferiore”, fra l’altro battendo nel salto il lungo il campione tedesco Luz Long, “ariano” nella concezione nazista, ma di animo nobile nella realtà. E proprio la sfida con Luz Long diventa l’emblema di come lo sport possa essere al di sopra delle guerre, delle bassezze umane, e diventare il racconto di un mondo migliore. Long, che dopo due nulli di Owens in qualificazione va dal suo avversario più pericoloso, a rischio di eliminazione, e gli suggerisce il modo di evitare il terzo nullo, per poi essere battuto proprio da lui in finale, è semplicemente un uomo, senza colori, senza pregiudizi, senza convinzioni da imporre ad altri, un uomo che riconosce l’altro come fratello.
Abebe Bikila arriva a Roma, nel 1960, da sconosciuto, ha vinto una maratona nella sua Etiopia con un tempo migliore del record olimpico detenuto dal cecoslovacco Emil Zatopek, ma nessuno crede che quella prestazione sia vera. La gara parte dal Campidoglio per chiudersi, di sera, sotto l’Arco di Costantino, accanto al Colosseo. L’ultima parte di quella maratona è un’immagine che sembra venuta fuori direttamente da una favola. Bikila corre a piedi scalzi, quando arriva sulla via Appia è ormai buio, ai lati della strada si accendono le fiaccole che danno alla scena una dimensione senza tempo, come se quell’uomo stesse correndo attraverso i secoli dall’antica Grecia fino a un eterno Arco di trionfo.
Se pensiamo alle Olimpiadi, volendo racchiuderle in una sola immagine, in un solo istante, è questo che vedremo.
LA STORIA
Il programma olimpico dell’atletica prevede 23 gare per gli uomini e per le donne, più due gare miste: la 4×400 con 2 uomini e 2 donne, che esordì a Tokyo 2020, e la staffetta di marcia 35 km, un uomo e una donna, che apparirà per la prima volta a Parigi 2024, al posto della 50 km maschile. Fino a Tokyo 2020, quindi, gli uomini avevano una gara in più, 24, con la 50 km di marcia.
Nel 1986, ad Atene, l’atletica, come tutti gli altri sport, era riservata solo agli uomini. Le donne furono ammesse nel 1928 ad Amsterdam. Le gare della prima edizione dei Giochi moderni erano 12: 100m, 400, 800, 1500 piani, 110hs, Maratona, lungo, triplo, alto, asta, peso, disco. Nel 1900, a Parigi, si aggiunsero 200m piani, 400 hs e martello (più altre gare che poi sono state abbandonate, come i 60 piani, i 200 hs, 2500 e 4000 siepi, 5000 a squadre, lungo, triplo e alto da fermo). Nel 1904 a Saint Louis il Decathlon. Nel 1908 a Londra il giavellotto. Nel 1912 a Stoccolma 5000 e 10000 m, staffette 4×100 e 4×400. Nel 1920 ad Anversa i 3000 siepi. Nel 1932 a Los Angeles la marcia 50km. Infine, nel 1956 a Melbourne la marcia 20km, a completare il programma che è poi rimasto immutato fino a Tokyo 2020.
Nella prima edizione in cui gareggiarono le donne, nel 1928, le gare erano solo cinque: 100m e 800 piani (questi furono sospesi dal 1932 e reinseriti nel 1960 a Roma), staffetta 4×100, alto e disco. Nel 1932 a Los Angeles furono aggiunti il giavellotto e gli 80 ostacoli, quest’ultima gara rimase nel programma fino al 1968 a Città del Messico, sostituita dai 100hs a partire dal 1972 a Monaco). Nel 1948 si aggiunsero i 200m piani, lungo e peso. Nel 1964 a Tokyo i 400m piani e il pentathlon (nel programma fino al 1980, poi sostituito dall’eptathlon). Nel 1972 a Monaco i 1500m piani e la staffetta 4×400. Nel 1984 a Los Angeles i 400hs, l’eptathlon e la Maratona. Nel 1988 a Seul i 10000m. Nel 1996 ad Atlanta i 5000m e il triplo. Nel 2008 a Pechino i 3000 siepi, a concludere il programma tuttora in vigore. Come si può facilmente notare, l’inserimento delle gare per le donne (oltre al ritardo di 32 anni nell’ammissione all’Olimpiade) è stato notevolmente più lento rispetto agli uomini, frutto di una mentalità distorta secondo la quale certe discipline non potevano essere adatte al corpo femminile, considerato non in grado di reggere certi sforzi. Ci hanno pensato le stesse donne a ridicolizzare questo modo di pensare.
In definitiva, sono gli Stati Uniti a dominare il medagliere totale con 342 ori, 271 argenti e 213 bronzi (825 complessivi), davanti a Urss (64-55-74), Gran Bretagna (55-83-69), Finlandia (48-35-31), Germania Est (38-36-35), Kenya (34-41-28), Polonia (28-21-17), Giamaica (27-34-25), Italia (24-15-26), Russia (23-24-25). Ma bisogna comunque ricordare che considerando la Germania come unica nazione e quindi aggregando i podi di Est, Ovest e Germania unita, si avrebbe un totale di 69 ori, 76 argenti e 100 bronzi. E anche per la Russia la situazione è simile, pur tenendo presente che nell’allora Unione sovietica c’erano anche atleti non russi, per cui la somma pura e semplice avrebbe bisogno di una parziale riduzione. Ad ogni modo, considerando Urss, Russia, Roc e Squadra unificata, il totale diventa di 95 ori, 91 argenti e 102 bronzi.
I CAMPIONI
Racchiudere in poche righe il racconto di campioni e imprese è impossibile, tante e tali sono le leggende che hanno reso indimenticabili le Olimpiadi. Per capire la portata di quanto accaduto dal 1896 in poi, di cosa ha significato non solo nello sport, ma nella storia del mondo, possiamo tentare di ridurre queste memorie ad alcuni momenti che suscitano grandi emozioni. Partiamo dagli eroi delle altre nazioni per poi passare agli italiani.
Il primo atleta con l’aura del mito può essere considerato Jim Thorpe, indiano d’America, il cui nome nella lingua del suo popolo, il meskwaki, è Wa-Tho-Huk, che significa Sentiero Luminoso. Nel 1912 a Stoccolma, vince l’oro nel Pentahlon e nel Decathlon, dimostrandosi atleta formidabile in tutte le specialità. Subirà poi una grande ingiustizia quando il Cio gli tolse le due medaglie perché aveva ricevuto un compenso giocando nel campionato di baseball, sport in cui eccelleva. I due ori gli furono restituiti nel 1983 su iniziativa dell’allora presidente Samaranch. Thorpe era morto nel 1953, le medaglie furono consegnate ai suoi figli.
Un nome solo per Anversa 1920 e Parigi 1924, ma un gigante nella storia del mezzofondo, fondo e campestre, il finlandese Paavo Nurmi. Nel 1920, irrompe sulla scena con 3 ori (10.000, cross individuale e a squadre) e un argento (5000). Nel 1924 il trionfo, con 5 ori e un’impresa incredibile, vince i 1500 e i 5000 programmati nello stesso giorno e nello spazio di appena un’ora, cui si aggiungono quelli nei 3000 a squadre e i due nel cross. Vincerà ancora un oro nel 1928 ad Amsterdam nei 10.000 e 2 argenti nei 5000 e nei 3000 siepi. Ha stabilito record mondiali nelle gare dai 1500 metri ai 20 chilometri.
Nel 1948 a Londra, finalmente, il posto d’onore spetta a una donna, l’olandese Fanny Blankers-Koen, con 4 ori: 100 e 200 piani, 80 ostacoli, staffetta 4×100. E’ chiamata “la mammina volante” perché quando vince a Londra ha 30 anni e due bambini, fatto considerato eccezionale a quei tempi, ma che lei dimostra essere naturale.
A Helsinki, nel 1952, tocca a un altro fondista diventare il personaggio dei Giochi. Il cecoslovacco Emil Zatopek ha già vinto un oro (10.000) e un argento (5000) a Londra 1948, ma è adesso che si impone di prepotenza come uno dei più grandi di tutti i tempi realizzando per la prima volta l’impresa di vincere l’oro nei 5000, nei 10.000 e nella Maratona, che disputava per la prima volta nella sua vita. Con l’andatura ciondolante, l’immagine della fatica, Zatopek dà la sensazione di crollare da un momento all’altro, e invece si rivela il più duro di tutti. La sua storia è ancor più indimenticabile per la sua storia d’amore con Dana Zatopkova, sua moglie, che prende l’oro nel giavellotto a Helsinki proprio mentre lui vince i 5000. Dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968, Zatopek, che era uno dei sostenitori della “Primavera di Praga”, fu mandato a lavorare in miniera. Fu riabilitato nel 1990.
A Roma nel 1960 è di nuovo una donna ad attirare l’attenzione di tutto il mondo ed è un’atleta che va oltre lo sport, che incanta per la sua grazia e la sua storia: Wilma Rudolph. La statunitense ha la poliomielite da bambina, le viene applicato un apparecchio correttivo alle gambe ed è costretta ad andare due volte alla settimana per le cure in un ospedale lontano 80 chilometri, perché quello è l’unico ospedale per i neri! A 12 anni riprende a camminare normalmente e comincia a praticare sport, prima basket, poi atletica. A Roma vince 3 ori, nei 100, 200 e 4×100, in quest’ultima gara, da ultima frazionista, prende il testimone come seconda dietro la tedesca Jutta Heine e si lancia in una impressionante rimonta che porta alla vittoria gli Usa. Viene soprannominata la “Gazzella nera”.
Il 1968 di Città del Messico è qualcosa di davvero speciale, perché non c’è un solo atleta a essere considerato l’emblema di questa Olimpiade, ma tanti personaggi ognuno dei quali meriterebbe un racconto a sé. Ma è chiaro che l’immagine che resta più legata a questi Giochi è qualcosa che va davvero oltre lo sport: gli statunitensi Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei 200, che levano il braccio al cielo, un pugno col guanto nero, la testa bassa a non guardare la bandiera degli Stati Uniti mentre suona l’inno. E’ un silenzioso urlo di dolore per le discriminazioni razziste cui sono sottoposti i neri negli Usa, proprio nell’anno che segna una rivoluzione “formidabile”, per usare la definizione di uno dei leader della protesta sessantottina in Italia, Mario Capanna, da parte dei giovani in tutto il mondo, contro vecchie concezioni che negano autentica libertà e democrazia. Smith e Carlos vengono cacciati dal Villaggio Olimpico con l’accusa di aver dato vita a una manifestazione politica e tornano a casa per poi essere discriminati e minacciati. E come loro anche l’australiano Peter Norman, argento in quella gara, che sul podio partecipa alla protesta indossando la spilletta dell’Olympic Project for Human Rights, che gli è stata data proprio da Smith e Carlos. Norman non sarà mai più convocato per le gare nonostante rimanga il velocista più forte del suo Paese, i dirigenti australiani lo puniscono. Quando morirà, a soli 54 anni, la sua bara sarà portata a spalla da Smith e Carlos.
Ma è tutta l’Olimpiade messicana a rivelarsi storica per l’atletica, con record frantumati grazie anche al fatto che si gareggia in quota (2240 metri) ma ugualmente sensazionali: 8.90 di Bob Beamon nel lungo, 19”83 di Tommie Smith nei 200, 9”95 di Jim Hines nei 100, 43”86 di Lee Evans nei 400, tutti statunitensi, 1’44”40 dell’australiano Ralph Doubell negli 800, 48”12 di del britannico David Hemery nei 400hs, 17.39 del sovietico Viktor Sanejev nel triplo, e le staffette statunitensi, 38”23 la 4×100, 2’56”16 la 4×400. E lo straordinario finale dei 10.000 metri, mai visto prima, con due africani che corrono gli ultimi 600 metri a una velocità inusuale per questa gara, che si era sempre conclusa con atleti allo stremo delle forze. Il keniano Naftali Temu (oro) e l’etiope Mamo Wolde (argento) fanno impazzire tutti, dal pubblico agli esperti del settore, sembra di stare guardando una gara dei 400 metri e non l’ultimo giro dei 10.000, con l’ulteriore peso dell’altitudine che, mentre favorisce gli atleti nelle distanze brevi, penalizza enormemente quelli dai 1500 metri in su. E’ il suggello a un’atletica che da questo momento in poi cambierà in modo irreversibile. Il “Corriere dello Sport”, a compendio di questi Giochi, titolerà: “Un’Olimpiade da fantascienza”. Proprio così.
Un salto al 1984, a Los Angeles, per trovare un altro dei miti, lo statunitense Carl Lewis, che in questa edizione dei Giochi eguaglia il record di Jesse Owens a Berlino 1936, vincendo 4 ori in quelle stesse gare: 100, 200, 4×100 e lungo. Carl Lewis si confermerà nelle successive Olimpiadi: 2 ori (100 e lungo) e un argento (200) a Seul 1988; 2 ori (lungo e 4×100) a Barcellona 1992); un oro (lungo) ad Atlanta 1996, riuscendo così a stabilire il record di 4 ori consecutivi nella stessa specialità, quello che già aveva fatto un altro statunitense, Al Oerter, nel disco dal 1956 al 1968. In totale Lewis vince 9 ori e un argento olimpici, cui si aggiungono 8 ori, un argento e un bronzo ai Mondiali.
Un personaggio davvero speciale si staglia su tutti nel 2000 a Sydney. E’ Cathy Freeman, aborigena, che vince l’oro nei 400 metri. Lei rappresenta il popolo originario australiano, prima che quella terra fosse invasa dai britannici, un popolo che nel corso degli anni è stato oppresso e perseguitato dai coloni. A lei è stato dato l’onore di ultima tedofora, ha acceso il tripode nella cerimonia d’apertura, ma è in gara che deve far abbassare la testa, non alle avversarie in pista, ma a tutti quelli che hanno discriminato e ucciso i suoi fratelli aborigeni. E Cathy Freeman vince dominando tutti e tutto. Poi, a piedi nudi, corre sulla pista con la doppia bandiera, aborigena e australiana, a rivendicare le sue origini, l’identità e l’orgoglio di un popolo intero.
Nel 2008 a Pechino si impone quello che è probabilmente l’atleta con la personalità più spiccata, capace di coinvolgere il pubblico e chiunque altro con le sue imprese, ma anche con il modo in cui diventa “attore” in pista: Usain Bolt. Il velocista giamaicano comincia qui la lunga sequenza che lo porterà a diventare, unico atleta nella storia, a vincere 100 e 200 in tre Olimpiadi consecutive (2008 Pechino, 2012 Londra e 2016 Rio de Janeiro). E questo record sarebbe ancor più sensazionale, con altrettanti ori consecutivi nella 4×100, quindi con tre triplette in tre edizioni dei Giochi, se non fosse che un suo compagno di staffetta a Pechino verrà poi trovato positivo al doping, fatto che ha come conseguenza la cancellazione di quell’oro. Così, Bolt si ritrova con “soli” 8 ori olimpici, oltre a 11 ori, 2 argenti e un bronzo mondiali, con gli attuali record mondiali sui 100 (9”58), 200 (19”19), entrambi nel 2009, e 4×100 (36”84) nel 2012, ancora impossibili da battere dopo 15 e 12 anni. La sua allegria, la sua maniera di coinvolgere il pubblico e farlo divertire, oltre alla tremenda superiorità nei confronti di tutti gli avversari, sono il segno di quanto questo campione ha fatto del bene allo sport.
GLI ITALIANI
La prima medaglia italiana in atletica risale a Londra 2008, grazie a Emilio Lunghi negli 800 metri. E’ proprio l’Olimpiade in cui ci sarebbe stato anche il primo oro azzurro, ma il vincitore della Maratona, Dorando Pietri, fu squalificato per essere stato aiutato a rialzarsi quando, negli ultimi 400 metri, in testa da solo, era crollato per la fatica. Il reclamo presentato da Stati Uniti (che aveva i suoi atleti al secondo e quarto posto) e Sud Africa (terzo), fu accolto, Pietri squalificato, l’oro a Johnny Hayes. Di qua comincia la narrazione dell’Italia sui podi olimpici. Al momento, è al nono posto nel medagliere totale con 24 ori, 15 argenti e 26 bronzi.
La lista dei podi è comunque lunga, impossibile ricordare tutti, ci soffermiamo sulle medaglie più importanti, sia come risultato, sia come significato.
I primi due ori, con lo stesso atleta, arrivano nel 1920 con Ugo Frigerio nella marcia, aprendo una gloriosa tradizione per l’Italia. Frigerio vince i 3000 metri e i 10.000. Si confermerà nel 1924 a Parigi, oro nei 10.000, e arriverà fino a Los Angeles 1932 dove prenderà il bronzo nella 50 km. E proprio a Los Angeles c’è Luigi Beccali a tenere l’Italia sul podio più alto, con la bella vittoria nel 1500, gara in cui stabilisce il record olimpico, per poi stabilire quello mondiale l’anno dopo.
Nel 1936, a Berlino, c’è l’esordio femminile sul podio con l’oro di Ondina Valla negli 80 ostacoli, in una finale combattutissima, con quattro atlete quasi sulla stessa linea, tutte cronometrate in 11”7. Al fotofinish si stabilisce che Valla vince in 11”748, davanti ad Anni Steuer (Germania) in 11”809, a Elizabeth Taylor (Canada) in 11”811 e all’altra azzurra Claudia Testoni in 11”818. Testoni era considerata la favorita prima dei Giochi), ma Ondina Valla in semifinale stabilisce il record del mondo in 11”6 e si presenta come l’atleta da battere, confermando in finale il suo migliore stato di forma. A Berlino, vanno segnalati anche gli argenti di Mario Lanzi negli 800 e la staffetta 4×100 (Orazio Mariani, Gianni Caldana, Elio Ragni e Tullio Gonnelli) alle spalle degli imbattibili Usa che, accanto a Jesse Owens, schierano un altro grande campione come Ralph Metcalfe, un risultato davvero considerabile.
L’edizione del 1948 a Londra va ricordata soprattutto per la doppietta azzurra nel disco: oro ad Adolfo Consolini, argento a Giuseppe Tosi. Consolini è uno degli atleti più rappresentativi dello sport italiano, un vero eroe popolare. Nel 1952 a Helsinki prenderà poi l’argento e a Roma 1960 leggerà il giuramento degli atleti. In carriera stabilisce anche per tre volte il record del mondo. Giuseppe Tosi ha solo la sfortuna di vivere nello stesso periodo di Consolini, ma anche lui si dimostra un grande atleta. Per chiudere con Londra 1948, vanno ricordati due altri argenti delle brave Amelia Piccinini nel peso ed Edera Cordiale nel disco.
Nel 1952 a Helsinki la marcia azzurra torna a vincere l’oro dopo 28 anni dall’ultimo di Frigerio. Tocca a Pino Dordoni con una gran prova nella 50 km. Preso come modello per il suo perfetto stile di marcia, diventerà poi responsabile della squadra nazionale, contribuendo a portare altri azzurri a importanti vittorie, come Abdon Pamich. Proprio Pamich ci porta a Roma 1960, edizione in cui è bronzo nella 50 km, un segnale di quanto sarà capace di fare quattro anni dopo a Tokyo. E bronzo è anche per Giuseppina Leone, nei 100 metri, vinti da Wilma Rudolph.
Ma Roma 1960 va ricordata soprattutto per l’oro di Livio Berruti nei 200, prima medaglia italiana nella velocità maschile. Berruti eguaglia il record del mondo di 20”05 in semifinale e ripete questo tempo in finale, davanti agli statunitensi considerati i grandi favoriti.
Nel 1964 a Tokyo è il momento di Abdon Pamich. Dopo il bronzo di Roma, è pronto per l’oro e non si fa scappare l’occasione, E’ chiaramente il più forte, ha un problema intestinale che gli fa perdere la testa della gara, ma si rimette in moto e supera tutti con un’azione perfetta. Quando arriva al traguardo, dove c’è ancora il filo di lana a segnare la fine della gara, lo prende con entrambe le mani e lo strappa con un gesto quasi di rabbia. Il titolo olimpici finalmente è suo.
Nel 1968 a Città del Messico ci sono solo due bronzi per l’Italia, con alterne emozioni. Nei 110 hs Eddy Ottoz non ha rimpianti, se non forse per un argento che gli viene soffiato per soli 4 centesimi dallo statunitense Ervin Hall, ma per l’oro c’è poco da fare perché l’altro statunitense Willie Davenport in quel momento è il più forte. E’ la gara del triplo a far soffrire. Giuseppe Gentile in qualifica fa il record del mondo con 17,10, battendo il 17,03 del polacco Josef Schmidt che durava da otto anni. In finale, al primo salto Gentile va ancora più in là, nuovo record a 17,22, ma da quel momento comincia la rumba dei record mondiali. Il russo Viktor Sanejev al terzo salto lo supera di un solo centimetro, 17,23. Al quinto dei sei salti di finale, ecco il brasiliano Nelson Prudencio che va in testa con 17,27. Ma all’ultimo tentativo Sanejev arriva a 17,39, oro e nuovo record mondiale, il quarto stabilito in questa incredibile finale. Gentile dopo il 17,22 ha fatto tre nulli, poi un 16,54 e infine un altro nullo, chiude sconsolato, il bronzo è un ottimo risultato, ma prenderlo in questo modo, dopo la grande illusione, fa male.
Monaco 1972 è un’altra edizione con soli due bronzi. Uno con Paola Pigni nei 1500, bravissima ad arrivare vicina alla sovietica Bragina (che fa il record del mondo) e alla tedesca dell’Est Hoffmeister (un solo decimo dietro) in un periodo in cui lo spprt dell’Est faceva sorgerev tanti sospetti di doping, poi confermati in molti casi. L’altro è un primo segnale di qualcosa che verrà, con il giovane Pietro Mennea terzo nei 200, dietro il sovietico Valerj Borzov e lo statunitense Larry Black. Un segnale simile arriva nel 1976 da Sara Simeoni nell’alto, argento alle spalle della tedesca orientale Rosemarie Ackermann. La rivincita arriverà dopo quattro anni.
Nel 1980, a Mosca, è l’Olimpiade del boicottaggio americano e di molti paesi occidentali. L’Italia partecipa solo con atleti non militari, un atto di ipocrisia senza senso. Si comincia bene con l’oro di Maurizio Damilano nella 20 km di marcia, ulteriore conferma della bontà della scuola italiana. Sara Simeoni, che arriva a Mosca forte del record mondiale di 2,01 stabilito nel 1978 a Brescia e poi confermato nella finale degli Europei a Praga nello stesso anno, vince l’oro con 1,97 senza correre alcun rischio.
Più difficile la gara di Mennea, che viene eliminato nei 100, vorrebbe ritirarsi nei 200, nei quali si presenta da primatista del mondo con il 19”72 ottenuto l’anno prima alle Universiadi a Città del Messico, sulla stessa pista in cui l’aveva stabilito Tommie Smith nel 1968. va in crisi, si riprende, arriva in finale e parte in corsia 8, nella 7 c’è l’avversario più pericoloso, lo scozzese Alan Wells, che ha vinto i 100. E infatti Wells parte fortissimo e dopo la curva ha un vantaggio che appare incolmabile. Ma in questo momento comincia la leggendaria rimonta di Mennea che supera Wells proprio a un metro dal traguardo. Alcuni contestano il valore di questo oro perché vinto senza gli statunitensi. Nella realtà, in quegli anni, almeno fino al 1983, non c’è alcun velocista degli Usa in grado di competere con Mennea sui 200, la riprova la si ha dopo l’Olimpiade quando in un meeting a Barletta, con alcuni dei migliori americani, Mennea li lascia cinque metri dietro e stabilisce con 19”96 la miglior prestazione mondiale a livello del mare.
L’analisi completa della situazione della velocità in quel periodo e del perché l’oro di Mennea non può essere messo in discussione è contenuta in un articolo di sportsenators a questo link:
https://www.sportsenators.it/1
La successiva Olimpiade del 1984, a Los Angeles, risente del boicottaggio delle nazioni dell’Est, risposta a quello del 1980. In alcune gare l’effetto è pesante. L’Italia chiude con 3 ori (Gabriella Dorio nei 1500, Alberto Cova nei 10.000, Alessandro Andrei nel peso), un argento (Sara Simeoni nell’alto), 3 bronzi (Maurizio Damilano nella 20km e Sandro Bellucci nella 50 km di marcia, Giovanni Evangelisti nel lungo).
Nel 1988, a Seul, l’oro della Maratona che era stato tolto a Dorando Pietri nel 1908 arriva finalmente in Italia, grazie a Gelindo Bordin. Il fondo azzurro si conferma con Salvatore Antibo argento nei 10.000, la marcia non si smentisce con Maurizio Damilano bronzo nella 20km, stesso risultato poi per Giovanni De Benedictis nel 1992 a Barcellona. Ed Elisabetta Perrone continua la tradizione con l’argento nella 10km ad Atlanta 1996, con Fiona May che è seconda nel lungo e Roberta Brunet bronzo nei 10.000, come Alessandro Lambruschini nei 3000 siepi.
Fiona May ripete l’argento nel 2000 a Sydney, imitata da Nicola Vizzoni nel martello. Si torna all’oro nel 2004 ad Atene, con Stefano Baldini nella Maratona e con Ivano Brugnetti nella 20km di marcia, con Giuseppe Gibilisco bronzo nell’asta. Ancora marcia a Pechino 2008 con Elisa Rigaudo bronzo nella 20km e Alex Schwazer oro nella 50 km.
C’è solo un bronzo a Londra 2012 grazie a Fabrizio Donato nel triplo. Nessuna medaglia a Rio de Janeiro 2016 per poi arrivare all’autentica “esplosione” di Tokyo 2020, edizione disputata nel 2021 a causa dell’epidemia di Covd. L’Italia vince 5 ori, seconda nel medagliere dell’atletica dietro gli Stati Uniti. La menzione d’onore va ancora alla marcia, nei 20km, con Antonella Palmisano e Massimo Stano. In pista, un risultato fenomenale: Gianmarco Tamberi nell’alto, a pari merito con il qatarino Barshim, Marcel Jacobs nei 100 metri e infine la 4×100 con lo stesso Jacobs, Lorenzo Patta, Fausto Desalu e Filippo Tortu.
LE GRANDI SFIDE
E adesso, Parigi! Un’idea di quanto potrà accadere in questa Olimpiade, sia dal punto di vista tecnico, sia da quello spettacolare, la si è avuta grazie alle prestazioni dell’ultimo mese, fra Trials di Stati Uniti e Giamaica, Meeting internazionali e gare in tutto il mondo: record del mondo battuti, a cominciare da quello del salto in alto femminile, che durava da 37 anni, e una serie notevole di tempi estremi, soprattutto nella velocità maschile. Sembra di vedere una serie di fuochi d’artificio che preparano il superbotto finale, a Parigi.
Il record che ha causato più stupore è quello dell’alto femminile, l’ucraina Jaroslava Mahucich ha saltato 2,10, un centimetro in più del vecchio record stabilito dalla bulgara Stefka Kostadinova il 30 agosto 1987 a Roma nel Golden Gala. E’ interessante notare che ad avvicinarsi di più ai 2,09 di Kostadinova fu la svedese Kajsa Bergqvist che nel 2006 saltò 2,08 indoor, ottenendo un differenziale di 33 centimetri fra la sua altezza (1,75) e il risultato ottenuto. La Kostadinova (alta 1,80) ne aveva uno di 29cm, la Mahucich (anche lei 1,80) di 30 cm. Ma il record di differenziale è di una italiana, Antonietta di Martino, alta 1,69 e capace di saltare 2,04, arrivando così a 35cm.
A Parigi, però, questa gara non avrà una vera sfida che possa far emozionare il pubblico, a meno di un clamoroso crollo della Mahucich. Le avversarie, infatti, non appaiono capaci di andare oltre i 2,02-2,03. L’unica atleta che sarebbe stata in grado di contendere la vittoria alla Mahucich è la russa Maria Kuchina (indicata come Lasitskene dopo il matrimonio, altra usanza offensiva per le atlete, che dovrebbero conservare il loro cognome), oro olimpico a Tokyo nel 2021, oro ai Mondiali 2017 e 2019, autorizzata a partecipare come atleta neutrale fino al 2022 perché non coinvolta nello scandalo doping che aveva fatto escludere i russi dalle competizioni internazionali, ma poi esclusa anche lei dopo l’inizio della guerra fra Russia e Ucraina, come se fosse responsabile lei della guerra. L’esclusione l’ha portata a non avere una normale attività, nemmeno di allenamenti, tant’è che anche se adesso le venisse concesso di gareggiare non avrebbe la forma giusta per farlo. Ho già detto che torneremo su questo argomento, ma per il momento si può solo far notare l’assurdità di questa decisione della Federazione internazionale di atletica che esclude una campionessa contro qualsiasi principio di giustizia sportiva e umana.
Il settore in cui le sfide non mancheranno è quello della velocità, fra 100 e 200 maschili che promettono grandissimo spettacolo. A entusiasmare sono stati in particolare lo statunitense Noah Lyles, vincitore dei 100 in 9”83 e dei 200 in 19”53 nei Trials, e i suoi compagni di squadra, Kenny Bednarek 9”87 e Fred Kerley 9”88, qualificati per Parigi, in una finale dei 100 in cui ben 5 atleti sono andati sotto i 10”: quarto Christian Coleman 9”93, quinto Christian Miller 9”98.
E ai Trials giamaicani sono arrivati il migliore e il terzo tempo dell’anno con Kishane Thompson 9”77 e Oblique Seville 9”82. Il secondo tempo del 2024 è del keniano Ferdinand Omanyala, 9”79 in altura. Poi c’è il cubano Shainer Reginfo in 9”90. Uno scenario da incubo per l’azzurro Marcel Jacobs, oro a Tokyo in questa gara, che non è riuscito a fare meglio di 9”92 in questa stagione. La conferma quantomeno di una medaglia, se non dell’oro, appare davvero difficile, se non impossibile. Stessa situazione nella staffetta 4×100, oro dell’Italia a Tokyo, con Usa e Giamaica che appaiono imprendibili, con l’unica variante di un errore nei cambi, altrimenti queste due nazioni sono irraggiungibili.
Stessa storia nei 200 con Lyles che vince i Trials davanti a Kenny Bednarek in 19”59 ed Erriyon Knighton in 19”77 (qualificati per Parigi), con altri due sotto i 20”, Christian Coleman 19”89 e Kyree King 19”90. Nella classifica dei tempi del 2024 troviamo anche Letsile Tebogo (Botswana) in 19”71 con 1,5 metri di vento contrario, e altri dieci atleti sotto i 20”, escludendo gli altri statunitensi che non possono andare a Parigi. Non considerando Usain Bolt, che appare ancora irraggiungibile coi suoi record (9”58 sui 100, 19”19 sui 200), a Parigi si potrebbero vedere le più grandi gare della storia nella velocità.
Sarà battagli anche fra le donne, nella velocità, fra Usa e Giamaica, ma anche nei 400 ostacoli, con la statunitense Sydney McLaughlin che ha migliorato il suo stesso record mondiale, da 50”68 a 50”65, nei Trials a Eugene il 30 giugno, e con l’olandese Femke Bol che tenterà di batterla. Altro record è quello nei 1500, con la keniana Faith Kipyegon che il 7 luglio si è migliorata di 7 centesimi arrivando a 3’49”04 ed è pronta a riprendersi quello dei 5000 che le è stato tolto nel 2023 dall’etiope Gudaf Tsegay in 14’00”21 (che però viene indicato in attesa di ratifica). E così in tante altre gare, sia femminili che maschili.
Per gli italiani, le maggiori speranze sono quelle di Gianmarco Tamberi nell’alto, con il qatarino Barshim ancora come principale avversario. E poi Leonardo Fabbri nel peso, ormai stabilmente sopra i 22 metri dopo aver fissato il record italiano a 22,95, pronto alla sfida col grande favorito, lo statunitense Ryan Crouser(che detiene il record mondiale con 23,56). Infine, la “solita” marcia, con i campioni olimpici di Tokyo nella 20km, Antonella Palmisano e Massimo Stano che tentano il bis.
Le aspirazioni di medaglie, degli azzurri e di tanti altri da tutto il mondo, non possono essere racchiuse tutte qui, ma di certo c’è che a Parigi ogni gara si preannuncia spettacolare, con atleti pronti a lottare e a regalare emozioni. L’Atletica non abdica: è sempre la Regina dei Giochi.