Il 4 maggio 1980 a Lubiana, una notizia squarcia il placido scorrere della vita rurale della capitale slovena: il maresciallo Tito è morto in una struttura in centro città nella quale era ricoverato. Fatali alcuni problemi circolatori alle gambe che da qualche mese gli avevano reso impossibile una vita normale. “Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro” – con un giorno di anticipo rispetto a Napoleone. Sepolto a Belgrado, il funerale di stato è tra i più grandi che si ricordino, con rappresentanti di 128 Paesi: 4 re, 31 presidenti, 6 principi, 22 primi ministri e 47 cancellieri.
Il giorno della scomparsa del Maresciallo è una domenica e in Italia va in scena la 29esima giornata di serie A. La Juventus è impegnata sul campo dell’Ascoli, l’Inter marca visita sul campo della Fiorentina e Aldo Maldera segna una doppietta delle sue contro il Pescara in un San Siro a tinte rossonere. Anche dall’altra parte dell’Adriatico, in Jugoslavia, c’è tanto calcio. La notizia, racconta il giornalista e scrittore Gigi Riva ne “L’ultimo rigore di Faruk” pubblicato nel 2016, arriva mentre si sta giocando Hajduk Spalato-Stella Rossa Belgrado. Croati contro serbi. Il capitano dell’Hajduk, Zlatko Vujovic, scoppia a piangere. Lo imiteranno compagni e avversari. Lacrime che scorrono anche in tribuna, fino a quando si alzano le note di una canzone dedicata al leader politico e che recita: “Mai deviare dalla tua linea”. Spettatori e giocatori non possono immaginarlo ancora, ma la realtà sarà come quando un pallone innocuo destinato a finire la sua corsa sul fondo viene deviato dallo stinco di un difensore tramutandosi nel più beffardo e doloroso degli autogol.
Una nazione che è stata grande
Il 2024 nel calcio è stato l’anno del Campionato europeo per nazionali. Che poi, se si guarda all’albo d’oro, è di fatto un Mondiale senza Brasile, Argentina e Uruguay. Insomma, il meglio del meglio, con le eccezioni citate. C’è una nazionale che l’Europeo non può giocarlo perché non esiste più, ma che ancora quarant’anni fa c’era, eccome se c’era. Un territorio in cui la concentrazione di talento calcistico era tale da mettere i brividi solo a immaginare con quale formazione giocherebbe oggi. Proviamo allora a metterla in campo, questa squadra: in porta Jan Oblak; in difesa Josko Gvardiol, Stefan Savic e Amir Rrahmani; a centrocampo Ivan Perišić, Luka Modric, Sergej Milinković-Savic, Eljif Elmas; sulla trequarti Dušan Tadic e in attacco Benjamin Sesko e Dušan Vlahovic. Tre serbi, altrettanti croati, due sloveni, un montenegrino, un kosovaro, un macedone. In panchina, pronti a subentrare, gente del calibro di Edin Dzeko, Marko Kovacic, Mario Pasalic, Lazar Samardzic o Sead Kolasinac e Jaka Bijol. Non è difficile ammettere che sarebbe una seria contendente al titolo europeo.
E, invece, sono tutti giocatori sparpagliati in tante nazionali diverse perché a un certo punto la storia ha preso una piega anziché un’altra. Se solo fossero nati quarant’anni prima, questi undici sarebbero stati compagni di squadra. Sarebbero stati il fiore all’occhiello di un calcio che a partire dal secondo dopoguerra ha sfornato talenti e raccolto applausi un po’ dappertutto. Applausi più che vittorie. Quelle, è successo più di una volta, sono svanite in prossimità del traguardo. Pensiamo all’Europeo del 1968, la finale di Roma contro l’Italia: Jugoslavia avanti 1-0, vicina al raddoppio, raggiunta a dieci minuti dal termine da una fiondata dell’interista Angelo Domenghini e sconfitta due giorni dopo nella ripetizione.
Incostanti, individualisti, anarchici, teste matte. Parole sentite tante volte. I brasiliani d’Europa, li avevano soprannominati. Accostamento esagerato? Questione di punti di vista per dirla alla Simone Cristicchi. Il principale stadio di Belgrado ha un nome, Marakana, che è più di un indizio. Non solo: nel 1971, Pelé ha voluto giocare l’ultima partita con la maglia del suo Brasile proprio contro di loro. La Jugoslavia: sei repubbliche e due province autonome. Etnie diverse, religioni diverse, idiomi diversi, alfabeti diversi. A fare da collante per quasi trent`anni, dal 1953 al 1980, è stato Josip Broz, il maresciallo Tito, il leader dei Paesi non allineati: né con gli Stati Uniti, né con L’Unione Sovietica.
La morte del maresciallo toglierà legittimità al modello socialista jugoslavo aprendo una crisi politica destinata a durare anni e a trasformarsi in guerra, una crisi nata anche, se non soprattutto, proprio dal venir meno della figura carismatica che aveva in qualche modo mascherato l’assenza di una vera e propria coscienza nazionale. L’uscita di scena di Tito porta all’istituzione di un organismo collegiale fatto di otto membri, uno per ciascuna Repubblica e provincia autonoma, con la presidenza assegnata a rotazione. Non servirà a granché, anche perché a problema si aggiungerà problema. Sul piano economico la scelta di imboccare la strada dell’autogestione ha prodotto danni enormi: il debito con gli organismi monetari internazionali è salito ben oltre i 20 milioni di dollari, la disoccupazione ha raggiunto il 25 per cento della popolazione attiva, con punte del doppio fra gli albanesi del Kosovo. L’inflazione nel 1980 si assesta nell’ordine del 100 per cento per salire fino al 2000 per cento sul finire del decennio successivo.
Arriverà il tempo in cui espressioni come “pulizia etnica” e “genocidio” entreranno nel vocabolario quotidiano, anche quello di noi italiani. Sarà guerra, di quelle che lasciano sul terreno decine di migliaia di vittime innocenti. Stavolta si muore a cinquanta minuti da noi, il tempo che impiegano gli aerei della NATO a percorrere la tratta Falconara-Sarajevo. Le armi entreranno in azione prima in Slovenia – per pochi giorni e con uno spargimento di sangue limitato – e poi in Croazia. Sono le prime due repubbliche a troncare i ponti con la Jugoslavia. Contrasti ideologici a parte, non ne possono più di contribuire con le loro tasse ad appianare il deficit delle altre repubbliche. Zagabria e Lubiana sono anche quelle con la qualità di vita più alta, quelle da sempre più vicine all’Europa occidentale, specialmente a quella Germania che ha da poco conosciuto la riunificazione. Ed ecco che, come se si trattasse di una coperta troppo corta o di un gioco di magneti dai poli opposti, per una riunificazione che avviene ecco scattare una separazione, traumatica.
Quella domenica di maggio del ’90
Lo stadio Maksimir è il più grande e il più ricco di storia di Zagabria. La nazionale croata disputa qui le partite decisive. Maksimir tradotto in italiano significa “Il massimo della pace”. L’ironia, alle volte, sa essere davvero atroce. Al suo ingresso, in corrispondenza del settore nord, il feudo del tifo organizzato, campeggia un memoriale su cui hanno inciso questa scritta: “A tutti i tifosi della Dinamo Zagabria, per i quali la guerra cominciò in questo stadio, il 13 maggio 1990, e che sacrificarono le loro vite sull’altare della patria”.
Il 13 maggio 1990 è il giorno di un’altra sfida croati contro serbi, questa volta Dinamo Zagabria – Stella Rossa. Una specie di Barcellona – Real Madrid in salsa balcanica. La Dinamo è il fiore all’occhiello dell’orgoglio zagrebino al punto che le è stato permesso di conservare nel proprio scudetto la scacchiera croata anche durante gli anni della presidenza di Tito. La domenica che ha preceduto la partitissima, in Croazia ci sono state le prime elezioni libere, un ulteriore passo verso il tramonto della Jugoslavia. A vincerle è stato il partito HDZ, acronimo di Hrvatska Demokratska Zajednica, in italiano “Unione Democratica Croata”. Il suo leader si chiama Franjo Tudjman ha alle spalle una vita che racchiude tante vite: partigiano comunista durante la seconda guerra mondiale, ha accompagnato l’ascesa del maresciallo Tito, lo ha assecondato in tutto e per tutto fino a diventare responsabile della formazione dei quadri dell’esercito jugoslavo. Poi Tudman ha scoperto una vena nazionalista che lo ha allontanato sempre di più dalle posizioni giovanili: è stato radiato dal partito, è finito in carcere con l’accusa di attività antijugoslava. In poche parole, è diventato il simbolo delle mire indipendentiste della Croazia.
Sul piano strettamente calcistico, Dinamo Zagabria- Stella Rossa non ha nulla da dire. I belgradesi sono già matematicamente campioni di Jugoslavia per la diciassettesima volta, i loro avversari devono accontentarsi del secondo posto. In una corrispondenza apparsa due giorni dopo sul Corriere della Sera, Eros Bicic, cronista nativo di Pola, scrive: “Secondo le previsioni, il derby fra la Stella Rossa e la Dinamo avrebbe dovuto essere quasi un’amichevole. Anche i preparativi di natura organizzativa avevano seguito l’iter normale: la direzione dello stadio aveva richiesto la presenza di novantuno poliziotti in proporzione ai circa 25000 biglietti staccati”. Novantuno poliziotti, uno ogni duecentosettanta tifosi. Potrebbe andar bene in condizioni normali, ma qui di normale non c’è nulla. Da Belgrado sono partiti in tremila, tutti o quasi appartenenti ai Delije (in serbo “gli eroi”), la frangia più estremista del tifo targato Stella Rossa. Il loro capo indiscusso si chiama Željko Ražnatovic, Arkan per gli amici, la tigre, un pluripregiudicato con alle spalle un mix inquietante di omicidi, condanne ed evasioni. È riuscito, facile immaginare come, a mettere ordine nella galassia delle varie fazioni di hooligan trasformandole da schegge impazzite in una sorta di falange paramilitare. Il viaggio in treno dei Delije sulla tratta Belgrado- Zagabria diventa una sorta di “allenamento” in vista di quello che sarà a distanza di poche ore allo stadio: carrozze devastate, vetri in frantumi, passeggeri terrorizzati.
Anche la Dinamo Zagabria ha i suoi tifosi disposti a tutto. Si sono dati un nome inglese, Bad Blue Boys, per tutti BBB, un nome che richiama certe bande giovanili americane di un film del 1983, “Bad Boys”, appunto, con Sean Penn nel ruolo di attore protagonista. Arrivano soprattutto dai deprimenti quartieri della periferia di Zagabria. L’anno fondazione dei Bad Blue Boys è il 1986, da allora hanno fatto proseliti in città e fuori. Segni particolari: una spiccata simpatia per la formazione Politica di Franjo Tudjman. Hanno saputo che da Belgrado si sono mossi i Delije e vogliono farsi trovare pronti. Non sarà una partita come tutte le altre. Alla fine, anzi, non ci sarà nemmeno una partita. Il calcio è solo un pretesto.
Il clima nelle strade di Zagabria è pesante e stride con il cielo terso di una giornata che sa tanto di estate anticipata. Ma il peggio deve ancora arrivare e ha come teatro lo stadio Maksimir. Le squadre entrano in campo per il riscaldamento e dalle tribune comincia a volare di tutto. La prima mossa la fanno i Delije strappando seggiolini di plastica e le insegne pubblicitarie che finiscono sul terreno di gioco. Succede proprio mentre lo speaker dello stadio annuncia le formazioni delle due squadre. Che si tratti di un’azione premeditata lo dimostra un particolare: qualcuno, da una parte e dall’altra, ha portato con sé dell’acido con il quale vengono divelte le barriere metalliche che separano le tribune dal rettangolo di gioco. Tutti in campo, a cercare il contatto con il nemico. È l’inferno. Quelli in pantaloncini corti, compagni e avversari, guardano come straniti: molti giocano in nazionale e nel giro di pochi giorni si ritroveranno a Sassuolo per preparare il Campionato del Mondo che andrà in scena in Italia. La maggior parte di loro si rende conto che lì non si può stare, sfrutta le proprie qualità di atleta e si rifugia negli spogliatoi.
In campo rimangono pochi giocatori, e quei pochi indossano la maglia della Dinamo. Uno di loro deve ancora compiere ventidue anni ma ha già i gradi di capitano, il più giovane nella storia del club. Si chiama Zvonimir Boban, ed è considerato uno dei più grandi talenti del calcio europeo. Indossa la maglia numero dieci, quella dei predestinati, Il suo futuro calcistico lo porterà in Italia, Bari e poi Milan fino al 2001, ma in questo momento per lui conta solo la Dinamo. Un’occhiata a destra, a sinistra, vede che i poliziotti hanno fatto la loro scelta di campo decidendo di inseguire e malmenare gli ultras della squadra di casa. Uno degli uomini in divisa si accanisce in particolare con un ragazzino e allora il capitano della Dinamo non ci vede più: lo rincorre fino a raggiungerlo e lo colpisce al volto con una ginocchiata. Il tutto ripreso dalle telecamere della televisione di Zagabria. Il poliziotto resta a terra con la mascella fratturata, prima di capitolare ha fatto in tempo a scambiare offese pesanti con Boban. Dinamo-Stella Rossa, ovviamente, non si gioca. Questo non impedirà alla rete televisiva CNN di classificarla tra le cinque partite di calcio che hanno cambiato il mondo. Il bilancio alla fine è di 138 feriti, 59 tifosi e 79 agenti, e di 132 arresti. Almeno non ci è cascato il morto.
Boban eroe nazionale?
Zvonimir Boban fa parte della categoria dei “calciatori pensanti”. Boban è molto cartesiano, non solo per le geometrie che tracciava in campo. Era ed è uno che “cogito ergo sum”. Si è laureato in Storia all’Università di Zagabria con una tesi intitolata “La cristianità nell’Impero romano”. Non ha mai avuto paura di dire quello che pensa, la sua carriera di dirigente è stata la naturale continuazione in giacca e cravatta di quella di calciatore. Di quel tredici maggio al Maksimir ha parlato qualche tempo dopo in un documentario dell’emittente televisiva ESPN.
“Quel giorno forse sono entrato nella storia sportiva e politica. […] Avevo poco più di ventun anni. All’epoca, sotto quel regime, il mio gesto era un suicidio. Temevo che mi succedesse qualcosa di brutto. La mia è stata una reazione da uomo. Dal punto di vista cristiano ho sbagliato, ma quel poliziotto mi aveva colpito per primo. Gesù dice di porgere l’altra guancia se qualcuno ti colpisce, però non ha detto cosa fare se vieni colpito su tutte e due le guance”
In quel calcio in faccia di Boban al poliziotto, molti hanno visto un simbolo di ribellione. Qualcuno, addirittura, lo ha considerato la scintilla che ha fatto divampare l’incendio, cioè la guerra dei Balcani. Paradossale, però, che a essere colpito dal giocatore sia stato un poliziotto che di serbo non aveva nulla. Si chiamava Refik Ahmetovic era un bosniaco musulmano di Tusla.
Italia ’90: il canto del cigno della Jugoslavia
Zvonimir Boban viene squalificato per sette mesi e questo gli impedisce di prendere parte al Campionato del Mondo del 1990. La Jugoslavia è allenata da Ivica Osim, nato e cresciuto a Sarajevo, la più multietnica delle grandi città jugoslave. Un guru del calcio che, come scrive Gigi Riva, incarna “l’impossibile speranza che almeno per un mese, il tempo della competizione, abbiano un senso le due parole chiave su cui si è retto il socialismo jugoslavo, fratellanza e unità”. I giocatori in qualche modo gli vanno dietro, non fosse altro che per il rispetto della persona. Il problema è tutto il resto. L’ultima amichevole prima di recarsi in Italia è in programma il 3 giugno, avversaria l’Olanda. Dove? A Zagabria, stadio Maksimir. Non una grande idea, a venti giorni soltanto dai fattacci costati la squalifica a Boban. Il pubblico fischia sonoramente l’inno jugoslavo, intona cori offensivi e sostiene per tutta la partita gli olandesi, che vincono con il punteggio di 2-0. “Non sapevamo di avere così tanti tifosi da queste parti” – è il commento di Ruud Gullit e Marco van Basten a fine partita.
Ad Ivica Osim ne hanno fatte di ogni: alcuni ignoti hanno persino messo in giro la voce che si fosse scolato undici bottiglie di whisky in una sera. Lui si è difeso con l’arma della dialettica e dell’ironia. Rispondeva in francese alle domande dei giornalisti jugoslavi. Ha preparato il Mondiale come se la sua fosse la nazionale di un paese unito, nel quale tutti remano dalla stessa parte. E invece la Jugoslavia stava lentamente implodendo, destinata a una fine orribile, solo che nessuno ancora poteva immaginarlo. In tutto questo, la Jugoslavia intesa come squadra è arrivata ai quarti di finale. Lo ha fatto con un percorso ondivago: malissimo al debutto contro la Germania Ovest, così così contro la Colombia, bene contro gli Emirati Arabi Uniti, benissimo negli ottavi contro la Spagna. L’ostacolo successivo è rappresentato dai campioni del mondo in carica dell’Argentina, cioè Diego Armando Maradona e altre dieci comparse. La partita della vita, appuntamento sabato 30 giugno a Firenze.
A posteriori, quel Mondiale la Jugoslavia avrebbe anche potuto vincerlo. E invece è uscita ai quarti, sconfitta ai rigori dall’Argentina. Ha giocato in dieci dalla mezz’ora del primo tempo per l’espulsione di Sabanadžović, il mastino su Maradona, eppure ha costruito le occasioni migliori per far gol. Al momento di scegliere i rigoristi, Osim ha preso la via degli spogliatoi: per lui la partita era terminata 0-0. A consegnare la lista all’arbitro è stato Safet Susic, il più carismatico tra i giocatori. Il quinto ad andare sul dischetto è stato Faruk Hadžibegic, musulmano di Bosnia: ne avrebbe volentieri fatto a meno, tenuto conto che un rigore l’aveva calciato e sbagliato contro la Colombia, ma evidentemente non c’erano altri volontari. Serviva far gol per pareggiare il conto dei penalty segnati e proseguire la sfida a oltranza, invece la palla calciata da Faruk è finita docile fra le braccia del portiere argentino Mauro Goicoechea. Fine del Mondiale, “Fine di un sogno”, come s’intitolava l’ultimo episodio di Miami Vice andato in onda qualche settimana prima dell’inizio dei Mondiali di calcio, fine di tutto. O quasi, perché mentre la Jugoslavia con le sue repubbliche e province scivola inesorabilmente verso la guerra, la nazionale di calcio continua a giocare e a vincere. Contrariamente a Sonny Crockett e “Rico” Tubbs nessuno ripone il distintivo e l’arma d’ordinanza.
Gli jugoslavi si qualificano per la fase finale del Campionato europeo del 1992, in programma in Svezia, vincendo il proprio girone davanti alla Danimarca. Quasi un miracolo calcistico, visto il contesto. Il 23 maggio, però, i titoli di coda scorrono per davvero e senza le melodie psichedeliche di Jan Hammer. A meno di un mese dall’inizio del torneo, Ivica Osim si dimette. Getta la spugna “in segno di solidarietà con la mia Sarajevo distrutta da una guerra inutile”. Quello che non racconta sono le minacce di morte a lui e ai giocatori: “Se scendete in campo, per voi è finita”. In un modo o nell’altro la Jugoslavia arriva in Svezia ma l’Europeo non lo gioca, esclusa a pochi giorni dal calcio d’inizio. La UEFA non vuole la nazionale di un paese in guerra. Al suo posto viene ripescata in tutta fretta la Danimarca, i cui giocatori erano di fatto in vacanza. E la Danimarca vincerà il torneo scrivendo quella che per tutti diventerà una favola. Per tutti ma non per chi dall’Europeo stato escluso quando si stava allacciando gli scarpini.
Rimane l’interrogativo: come sarebbe finita con la Jugoslavia ai blocchi di partenza? Mi riferisco ovviamente alla Jugoslavia vera, con tutti i suoi giocatori migliori: Dragan Stojkovic, Zvonimir Boban, Robert Prosinečki, Dejan Savicevic, Sinisa Mihajlović. Che poi è lo stesso interrogativo che ci porta ai giorni nostri: fin dove arriverebbe, oggi, una nazionale con Modrić, Milinkovic-Savic, Sesko e Oblak? Ma sono solo voci come cantava Russ Ballard nel quinto episodio della prima stagione di Miami Vice: “Il ritorno di Calderone”. “Voices, I hear voices” – salvo poi aggiungere: “Don’t look back, yesterday’s gone”. Non ci sarà alcun ritorno. Il triplice fischio generato dai boati delle bombe NATO l’hanno sentito tutti…