L’1 agosto 1980, nello stadio Lenin a Mosca, il24enne inglese Sebastian Coe vince l’oro nei 1500 metri all’Olimpiade. Pochi giorni prima, il 26 luglio, ha preso l’argento negli 800, dietro l’altro britannico Steve Ovett. Sono i Giochi dimezzati per il boicottaggio dei Paesi occidentali, voluto dagli Stati Uniti, dopo che l’Unione sovietica ha invaso l’Afghanistan nel dicembre 1979. In teoria, anche la Gran Bretagna non dovrebbe andare a Mosca, il suo Governo appoggia il boicottaggio, ma il Comitato olimpico britannico rivendica la separazione fra politica e sport, così decide di partecipare. E Coe può realizzare il sogno di vincere l’Olimpiade.
Oggi, 44 anni dopo quella medaglia d’oro vinta grazie a chi aveva difeso l’autonomia dello sport, il 68enne Sebastian Coe, sì proprio quello di Mosca 1980, da presidente della Federazione mondiale di atletica, è il sostenitore più convinto dell’esclusione di atleti russi e bielorussi da qualsiasi gara di questo sport, incluse ovviamente le Olimpiadi. La Russia era già stata messa fuori legge a causa del mancato rispetto delle procedure antidoping, per cui la partecipazione alle gare era consentita solo agli atleti russi che potevano provare l’indipendenza da quel sistema di frode in materia di doping. Dopo l’invasione dell’Ucraina, a febbraio 2022, il divieto, almeno in atletica, era scattato in maniera assoluta per tutti i russi e i bielorussi.
Con quale coerenza il Coe presidente si comporta in maniera opposta al Coe atleta è difficile da capire. L’Urss invade l’Afghanistan e Coe atleta non ha alcun problema ad andare a gareggiare in una nazione che ne ha invaso un’altra. La Russia invade l’Ucraina e Coe presidente impedisce agli atleti russi e bielorussi di gareggiare. Quando va bene a lui, perché vuole mettersi in tasca un oro olimpico, il confronto fra atleti di nazioni che hanno iniziato una guerra e atleti di paesi in pace è giusto. Quando non va bene a lui, gli atleti di una nazione che ha iniziato una guerra sono considerati colpevoli di quello che ha fatto il Governo del loro Paese e quindi non sono ritenuti degni di confrontarsi con quelli di nazioni in pace.
Considerato che l’atletica è considerata la “Regina dei Giochi”, l’Olimpiade che comincia oggi a Parigi si distingue per un peccato originale che compromette il suo valore sportivo, di principio oltre che tecnico e spettacolare. E le stesse condizioni poste agli atleti russi di alcuni sport che, a differenza dell’atletica, consentono la loro partecipazione, appaiono contrarie a qualsiasi logica. Se è vero che il presidente russo Vladimir Putin è un criminale e che chiunque osi schierarsi contro di lui rischia la vita o come minimo il carcere, come si può chiedere a un russo di condannare l’invasione dell’Ucraina sapendo che i suoi parenti in Russia, a causa di queste prese di posizioni, possono subire ritorsioni molto gravi? Ma davvero siamo arrivati a questo punto? C’è un modo di descrivere questa situazione che, per la sua volgarità, non è opportuno riportare qui. Ma almeno un’idea ce la possiamo fare.
E, in ogni caso, è obbligatorio pensare e dire le stesse cose che pensa e dice il resto del mondo? Ed è obbligatorio per un atleta esprimere un parere, che però deve essere allineato con quello del resto del mondo, su quello in cui è coinvolto il suo Paese? Un conto è l’apologia di atti criminali, un altro il diritto di avere un’opinione diversa da quella degli altri.
La conseguenza pratica di tutto questo, oltre alla cancellazione dei diritti umani e sportivi degli atleti, è la cancellazione di sfide che avrebbero potuto creare maggior interesse. Un solo esempio basta per capire la situazione, quello del salto in alto femminile. L’ucraina Jaroslava Mahucich ha stabilito il record del mondo a 2,10 proprio alla vigilia dei Giochi, battendo quello della bulgara Stefka Kostadinova, 2,09, che durava dal 1987. A Parigi non avrà avversarie, ma soprattutto non avrà di fronte la russa Mariya Kuchina, oro all’Olimpiade di Tokyo e nei Mondiali 2015, 2017 e 2019, che l’ha sempre battuta finché le è stato consentito di gareggiare. Anche per Kuchina, che non era stata fermata dal divieto causato dallo scandalo doping in Russia, è arrivato lo stop a causa dell’invasione russa dell’Ucraina. Non potendo prendere parte alle manifestazioni, Kuchina non ha potuto mantenere lo stesso livello di forma, tanto che alla fine ha dichiarato, fra le lacrime, che la sua carriera è finita. Ecco la reale situazione: una atleta distrutta per qualcosa di cui lei non può essere responsabile, né giuridicamente, né moralmente.
Ancora più triste, poi, è la richiesta fatta da quasi tutti gli atleti ucraini di impedire la partecipazione dei russi alle gare, di qualunque russo a qualsiasi gara. Se umanamente è comprensibile lo stato d’animo di chi vede il proprio Paese e i propri familiari in pericolo, non può esserlo quando tutto questo porta a un’ulteriore ingiustizia, quella che colpisce chi non ha alcuna responsabilità di una guerra dichiarata dal suo Governo. Punire qualcuno per qualcosa che non ha fatto e non ha favorito va contro ogni principio di giustizia e democrazia.
Se poi questa decisione viene presa da chi, come Sebastian Coe, ha avuto un comportamento opposto a seconda se fosse atleta o presidente, tutto diventa ancora più assurdo e antisportivo.
Dal nostro inviato a Parigi, Gennaro Bozza (foto tratta dal corriere.it)