La vendetta non è mai una strada dritta: è una foresta. E in una foresta è facile smarrirsi. Non sai dove sei né da dove sei partito. – Hattori Hanzo – Kill Bill vol.1
Nel 2006, esce nelle sale Freedom’s Fury, un documentario sportivo prodotto da Lucy Liu e Quentin Tarantino. La pellicola riguarda il “Melbourne-i vérfürdő”, tradotto “il bagno di sangue di Melbourne”, la partita di pallanuoto tra Ungheria e URSS del 6 dicembre 1956. Esiste, forse un momento di sport più tarantiniano di questo?
Una storia cruenta, perché quando c’è di mezzo una guerra, un’invasione, un’aggressione, le scelte sono due: o uno dei contendenti rifiuta di gareggiare, cosa ampiamente vista e rivista soprattutto alle Olimpiadi, oppure si gioca e non ci si risparmia. Ai Giochi olimpici siamo abituati ad assistere ai forfait, atleti che non hanno voluto affrontare avversari prima di tutto per motivi politici, per le pressioni subite dai loro governanti. Ma questa volta no, questa volta si gioca perché bisogna vendicare più o meno sportivamente un’ingiustizia.
L’Italia canta sulle note di Che Bambola di Fred Buscaglione, mentre Mike Bongiorno conduce “Lascia o Raddoppia”, cult della storia televisiva italiana. A Cortina si svolgono le Olimpiadi invernali. Nikita Kruscev denuncia i crimini dello stalinismo durante il ventesimo congresso del PCUS. Anna Magnani vince l’Oscar come migliore attrice protagonista per il film “La rosa tatuata”, è la prima attrice non anglofona a ricevere il premio. Anno di nozze di un certo peso questo 1956: si sposano Grace Kelly e Ranieri di Monaco, Marilyn Monroe e Arthur Miller. Anno anche di storie interrotte brutalmente: affonda, infatti, l’Andrea Doria, il Titanic italiano, e a Marcinelle, Belgio, la torcia di 262 minatori, di cui oltre la metà nostri connazionali, si spegne per sempre. Le tensioni attorno al canale di Suez dopo la nazionalizzazione decisa da Nasser crescono; Francia e Gran Bretagna intervengono militarmente insieme a Israele contro l’Egitto ma sono costrette al ritiro per pressioni internazionali. Nasce la prima missione dei Caschi blu dell’ONU. Questo è anche l’anno delle Olimpiadi di Melbourne che iniziano a fine novembre, prima volta che i giochi si disputano nell’emisfero australe, e le difficoltà non sono poche da parte di atleti europei e statunitensi, che lamentano i violenti sbalzi di temperatura.
Su quell’edizione dei Giochi si abbatte ben presto un tornado di boicottaggi: l’Olanda annuncia subito che non sarebbe stata presente seguita dalla Spagna di Franco, dalla Svizzera e poi da Ghana, Guatemala, Malta, Panama, tutte per protesta contro l’azione di Mosca nei confronti del governo di Budapest (ne parleremo più tardi), mentre Egitto, Iraq, e Libano decidono di non partecipare a causa delle preoblematiche legate al canale di Suez. Ad accendere il braciere delle sedicesime Olimpiadi è Ron Clark, mezzofondista e maratoneta idolo di casa.
Dal punto di vista dei risultati e dei record l’Olimpiade australiana è ricca di eventi memorabili. La Germania gareggia con un’unica squadra sotto la classica bandiera nera, rossa e gialla con i 5 cerchi al centro, mentre diversi atleti compiono vere e proprie imprese. L’Australia domina nel nuoto con 8 medaglie d’oro su 13 e vince i 100 stile libero maschili e femminili, occupando tutti e tre i gradini del podio. Il mezzofondista russo Vladimir Kuc fa doppietta nei 5.000 e nei 10.000, l’australiana Betty Cuthbert vince l’oro nell’atletica di velocità 100, 200 e nella staffetta 4×100. Carlo Pedersoli, noto ai più con lo pseudonimo di Bud Spencer, approda alla semifinale dei 100 stile libero. La vera protagonista dei giochi, però, sarà la sovietica Larisa Latynina che vincerà tre medaglie d’oro e un argento. La ginnasta parteciperà ad altre due edizioni delle Olimpiadi, vincendo ben 18 medaglie in totale ed è tutt’oggi la seconda atleta più medagliata di sempre superata solo dall’americano Michael Phelps. Il pugile ungherese Laszlo Papp vince il terzo oro nella boxe nei pesi medi.
La rivoluzione liberale ungherese
Circa un mese prima dell’inizio delle Olimpiadi, il 23 ottobre, migliaia di studenti e operai scendono in piazza nel centro di Budapest per una manifestazione pacifica di solidarietà con gli abitanti di Poznan, in Polonia, vittime della repressione sovietica a seguito degli scioperi di giugno. Ben presto gli abitanti della città vanno ad ingrossare le fila dei manifestanti in una rivolta contro la dittatura e la presenza sovietica in Ungheria. Il discorso di condanna dei manifestanti alla radio del primo ministro e segretario del partito Ernő Gerő esacerba la situazione. La folla raccolta sotto l’edificio della radio attacca i soldati e la polizia giungendo allo scontro armato. Il giorno dopo le truppe sovietiche entrano in città su richiesta del governo. Ernő Gerő viene destituito e alla guida del partito va János Kádár, mentre la rivoluzione si estende ad altre città. Vengono istituiti comitati rivoluzionari e consigli operai, ripristinati molti partiti. Il 25 ottobre, Imre Nagy diventa il nuovo premier e riconosce subito che l’insurrezione ha i contorni di una rivoluzione nazionale. Concede gran parte di quanto richiesto dai manifestanti in un programma in 16 punti che prevede, tra l’altro, il ritiro delle truppe sovietiche e la democratizzazione della vita politica. Il 30 ottobre le truppe si ritirano da Budapest e il partito ungherese dei lavoratori, sostituito dal partito socialista operaio ungherese guidato dai sostenitori delle riforme, viene dichiarato ufficialmente sciolto. Il 1 novembre l’Ungheria esce dal patto di Varsavia e dichiara la propria neutralità.
Per Mosca, il governo ungherese in carica capitanato da Nagy si è spinto oltre i limiti consentiti dal partito comunista russo, che teme soprattutto il rischio di un allargamento del fenomeno ungherese in una sorta di effetto domino che già si era palesato in Polonia a Poznan, in Romania a Cluj e in Cecoslovacchia a Bratislava. Il KGB riferisce che esiste un sottobosco di crescente ostilità e sfiducia nella politica dell’URSS repressa anche sul suo territorio in Georgia. La crisi economica e gli standard di vita sono le micce che accendono il malcontento della classe lavoratrice, dei contadini, degli studenti. Mentre Mosca ascolta le tesi di Kruscev, il dibattito all’interno dell’élite del partito socialista ungherese esplode, proprio mentre la popolazione si mobilita. Mentre le Olimpiadi sono in pieno svolgimento, il 3 novembre nel corso di una trattativa per il ritiro delle truppe sovietiche, il KGB arresta a tradimento il neo ministro della Difesa Pál Maléter. Il giorno dopo l’armata russa arriva alle porte di Budapest e sferra l’attacco. Ci sono colonne di carri armati, incursioni aeree, bombardamenti di artiglieria ed azioni combinate di fanteria penetrano nelle aree urbane. Con oltre 200.000 uomini e 4000 carri armati, nonostante una rabbiosa resistenza soprattutto nei centri operai ma con una grande sproporzione di forze in campo, in breve tempo i sovietici hanno buon gioco. Il 7 novembre viene restaurato un governo filo sovietico guidato da Kádár. Naghi è consegnato ai sovietici il 22 novembre e trasferito a Snagov in Romania. Naghi, Pal Maleter e il giornalista Miklós Gimes vengono giustiziati in gran segreto il 16 luglio 1958 dopo un processo a porte chiuse durato 5 giorni.
La rivoluzione ungherese è repressa in modo particolarmente duro. Vengono eseguite oltre 500 condanne a morte e saranno decine di migliaia le persone rinchiuse in campi di internamento o in carcere. Ben 200.000 ungheresi lasciarono il paese. L’Ungheria ferita nell’orgoglio e ancora scossa dalla reazione sovietica al tentativo di insurrezione partecipa ai giochi conquistando il quarto posto nel medagliere dietro a USA, URSS e Australia. Il risultato è incredibile se si considera che quella rivolta ha di fatto estromesso dalla spedizione olimpica molti dei loro atleti più forti, emigrati o addirittura morti nel tentativo di liberare le proprie città e la nazione. Sui campi di gara, sui ring, sulle piste di atletica e soprattutto in vasca gli ungheresi lottano anche duramente per ottenere medaglie e riconoscimenti ma soprattutto per dimostrare al mondo che quella rivoluzione repressa nel sangue è una ferita o da dimenticare il più in fretta possibile o, forse, da scolpire nella pietra per generare riscatto. La rappresentativa ungherese, soprattutto nell’atletica, patirà continue defezioni e fughe di allenatori e campioni. Quarantacinque tra atleti e dirigenti rifiutano al termine dei giochi di tornare in Ungheria, chiedendo asilo politico in diverse parti del mondo. Qualcuno sceglie l’esilio ancora prima delle Olimpiadi. Tra questi i calciatori più importanti della Honved, che rappresentano l’ossatura della nazionale capace di vincere l’oro a Helsinki nel ‘52 e di sfiorare il miracolo nel mondiale del ‘54 con l’Aranycsapat, la squadra d’oro, allenata da Sebes e composta da calciatori immortali Puskas, “il colonnello”, Nándor Hidegkuti, il primo falso nueve della storia, Czibor e Kocsis.
La palombella magiara
La pallanuoto è uno sport completo per eccellenza, durissimo per via della fisicità e dei contatti tra i giocatori. Il confronto con gli avversari è imprescindibile e gli scontri fisici sono all’ordine del giorno così come le scorrettezze anche quelle più fantasiose. C’è chi tira i peli delle ascelle dell’avversario, chi colpisce con le cosiddette vecchiette, chi pizzica le parti più o meno nobili. La pallanuoto può essere uno sport brutale, proprio come l’invasione di una colonna di carri armati. Vieni preso a calci, a morsi, ti tirano il costume e se necessario vieni tenuto per le braccia. Quando cerchi di superare qualcuno con la testa sott’acqua è facile che l’avversario lasci il ginocchio o il gomito sollevati. Poi ci sono gli schiaffi in faccia, i colpi al collo, al mento oppure il ginocchio sul fianco. “Cattiveria pura” – parole e musica di Marco Stam, ex pallanuotista tedesco e allenatore che ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008.
Anche Nanni Moretti, agli antipodi del cinema rispetto a Tarantino, ha dedicato alla pallanuoto, suo grande amore, un film: “Palombella rossa”. Una metafora sulla caduta del comunismo, sulla perdita di identità, la storia di un fallimento politico all’orizzonte, una pellicola uscita due mesi prima della caduta del muro di Berlino che racconta un’infinita partita di pallanuoto decisiva per la vittoria del campionato disputata fuori casa davanti ad un pubblico ostile. C’è anche qui un ungherese. Il malessere si trascina lungo tutto il film raccontando l’andamento del match che la squadra di Moretti sta perdendo in maniera netta fino all’incredibile inizio di una rimonta, culminata dal gesto tecnico più bello della pallanuoto, quello più beffardo e fantasioso: la palombella. La palombella a marchiare qualcosa di sublime, di talentuoso ma anche a simboleggiare la traiettoria discendente che denota qualsiasi cosa partorita dalla mente umana, ideologie e politica comprese.
Nel 1956 la politica non è qualcosa di tangenziale bensì è la miccia che accende una partita di pallanuoto e la fa entrare di diritto nella storia, non certamente per un discorso tecnico sportivo. A Melbourne, il torneo di pallanuoto prevede la partecipazione di 10 nazionali divise in tre gironi. Ai nastri di partenza per l’Europa ci sono l’Unione Sovietica, Jugoslavia, Romania, Ungheria, Italia, Gran Bretagna e Germania unita. Completano il lotto Stati Uniti, Singapore e Australia. La fase di qualificazione scivola via senza troppe sorprese e al girone finale passano in sei: tra queste l’Ungheria, campione olimpico uscente, e l’URSS. Si tratta del cosiddetto girone all’italiana, in cui tutte le contendenti si incontrano una volta e determinano la classifica finale. La formula non prevede una fase ad eliminazione ma molto semplicemente chi fa più punti nelle 5 partite del girone vince la medaglia d’oro e di conseguenza chi si accomoda al secondo e al terzo posto guadagnerà argento e bronzo. Non c’è il pathos del dentro fuori ma questo mini torneo non risparmierà nessun tipo di emozioni. Tutti i pronostici vengono rispettati fino al match che spariglia le carte: Jugoslavia – Germania. I primi nettamente più forti vengono imbrigliati dai tedeschi e sono costretti ad un pareggio che complica le loro speranze di medaglia pregiata. I tedeschi unificati sotto la stessa bandiera chiuderanno ultimi a un punto ottenuto proprio con quel pareggio insperato e imprevisto.
Il 6 dicembre 1956 a Melbourne va in scena un vero e proprio spareggio. Ungheria contro Unione Sovietica. I moti rivoluzionari di Budapest e il rumore dei carri armati fanno parte di questa storia e di questa partita che altro non è che il pretesto per regolare i conti e togliersi qualche sassolino dalle scarpe, in una parola: vendetta, tremenda vendetta, vendetta alla Kill Bill. La nazionale ungherese di pallanuoto non è una squadra come le altre. Basta guardare il suo pedigree. Nelle precedenti quattro edizioni dei giochi ha vinto tre medaglie d’oro e un argento. L’Ungheria della pallanuoto è come il Brasile nel calcio. Quella nazionale non è solo talento ma un mix di forza, intelligenza tattica e grande umiltà. Come se non bastasse gli ungheresi stanno studiando una variante tattica per mettere in difficoltà i loro avversari, qualcosa di innovativo che rivoluzionerà per sempre il gioco difensivo, qualcosa di mai visto in una piscina: la zona. La rivoluzione ungherese che qualche mese prima era stata repressa, questa volta, portata in una piscina, risulterà vincente. Vero: gli avversari godranno di maggiore libertà, potendo avanzare e avvicinandosi alla porta e uno di loro avrà la possibilità di essere in condizione di tirare. Un rischio, forse. Ma attenzione: quell’uomo a cui verrà lasciata una relativa libertà di tiro non potrà fallire, perché la squadra ungherese, nel momento in cui recupererà il pallone, sarà già schierata e pronta per ripartire in controfuga scevra dalle marcature classiche della difesa uomo. C’è un piccolo segreto: quella libertà relativa veniva lasciata ad un avversario in particolare e la cosa particolare è che nessuno dei sovietici se l’aspettava. Così in virtù anche di un portiere particolarmente forte, la mossa che spariglia le carte è quella che fa innervosire talmente tanto i sovietici che non ci capiscono più niente.
La libertà, il fulcro di questa storia, qualcosa per cui si lotta diventa il tema tattico di una partita che partita non è ed è incredibile che l’asso per annichilire gli avversari sia quella libertà che gli ungheresi hanno voluto difendere a tutti i costi. L’Ungheria è impermeabile in difesa e letale in attacco e se la guerra è una dimostrazione di forza e i sovietici ne hanno dato prova, nello sport si inizia tutti dallo stesso punto di partenza, ad armi pari e quando c’è equilibrio la differenza la fanno sempre il cervello e l’intelligenza; è passato un mese dalla repressione sovietica contro la rivoluzione liberale ungherese e questa non può essere una partita come le altre le calottine magiare: i fatti, i sentimenti, il sangue dei morti di Budapest sono ancora un ricordo troppo fresco e non è possibile fare finta di niente, non si può non pensare che davanti a quei sette uomini ci sia la nazionale di quello Stato che ha invaso il tuo paese e che ha contribuito a tanto dolore.
Non ci sono armi, non ci sono carri armati, ci sono lo stesso numero di uomini e in vasca una palla. La piscina e non le strade come teatro di un incontro che solo formalmente vale per il titolo olimpico. Ci sono punti in palio per la classifica ma soprattutto l’orgoglio, la voglia di rivalsa, la vendetta più o meno sportiva a contare più di ogni altra cosa. In guerra non ci sono regole, nello sport sì, ma i sovietici da quella invasione avevano tratto anche spunti importanti per copiare, studiare i metodi di allenamento e le tattiche dei campioni ungheresi costretti poco prima della partenza per Melbourne a rifugiarsi fuori Budapest e successivamente in Cecoslovacchia per essere risparmiati dalla violenza della rivoluzione. Solo a Melbourne agli atleti della nazionale di pallanuoto viene raccontata tutta la verità e le notizie che arrivano dall’Ungheria non rassicurano di certo gli animi di quegli uomini che laggiù a casa hanno lasciato mogli e figli, famiglie, amici.
La partita
La partita è sin da subito tesissima e gli ungheresi decidono di adottare uno stratagemma per innervosire i loro avversari parlandogli in russo, lingua che avevano imparato a scuola per volere del regime comunista e siccome a scuola, soprattutto da ragazzini, la curiosità diventa desiderio, malizia, sfacciataggine, quegli atleti costretti a studiare il cirillico hanno scelto di imparare a menadito le parolacce e se fuori dall’acqua a mezzo busto sono le parole a farla da padrone, sotto il pelo dell’acqua comandano calci, pugni, ginocchiate, colpi proibiti. Prima dell’inizio della partita la situazione di classifica recita Ungheria e URSS a quattro punti, Jugoslavia a tre e via via le altre. La difesa a zona dell’Ungheria funziona alla grande. I magiari hanno battuto Gran Bretagna, Usa, Italia e Germania. Sugli spalti della piscina dell’Olympic Park tra il pubblico ci sono profughi emigrati ungheresi che sventolano la bandiera tricolore con un buco centrale per via della sforbiciata che ha tolto i simboli del potere comunista, martello, spiga di grano e stella rossa, e poi ci sono gli australiani che insieme a molti americani scelgono ovviamente di stare dalla parte del più debole, dalla parte dell’aggredito e non da quella dell’aggressore. Lo svedese Zuckermann, l’arbitro che dovrà domare la partita, non può immaginare quello a cui andrà incontro.
Il fischio che dà il là al match è come la campanella del ring. Non è passato nemmeno un minuto e al capitano dell’unione sovietica di origini georgiane, P’et’re Mshvenieradze, viene comminata un’espulsione temporanea. I sovietici reagiscono ad ogni insulto dando dei “fascisti e traditori” agli avversari. Spiegherà anni dopo Erwin Zador, giovane stella della pallanuoto magiara:
“Loro dovevano combattere e noi giocare. Loro dovevano perdere la testa e noi fare gol. Per questo li abbiamo insultati dall’inizio e loro hanno abboccato. Noi non abbiamo mai smesso di giocare”
A metà gara l’Ungheria vince per due a zero. Sugli spalti il pubblico è indiavolato. L’Ungheria insiste e triplica, poi cala il poker, infierendo quattro a zero. La tattica difensiva dei magiari ha funzionato e i sovietici sono andati completamente in tilt. Quella libertà concessa dai magiari sempre al giocatore sbagliato, sempre al tiratore sbagliato, imbriglia in questa tela di furore agonistico e trash talking il simbolo dell’oppressione, quel regime dalle spire autoritarie incapace di segnare nemmeno un gol.
“Vendetta doveva essere, vendetta è stata. Ma: “La vendetta non è mai una strada dritta: è una foresta. E in una foresta è facile smarrirsi. Non sai dove sei né da dove sei partito”
Quando mancano davvero pochi istanti alla fine della partita ecco che la partita, che non è solo una partita, assume le tinte del delitto d’onore: Antal Bolvary, autore del terzo gol magiaro, scambia un cenno d’intesa con Erwin Zador: è il segnale di un cambio di marcatura, che porta quest’ultimo a spostarsi nella zona di Valentin Ivanovič Prokopov. Zador e Prokopov erano entrati in collisione qualche minuto prima e il russo, provocato dai reiterati insulti, aveva sferrato all’ungherese un cazzotto tra mandibola e tempie. Zador si porta così vicino a Prokopov; lo martella di insulti, non è soddisfatto di quella vittoria netta, vuole infierire:
“Sei un perdente! Arrivi da una famiglia di perdenti!”
Proprio in quel momento, però, Zador commette una leggerezza, si perde nel sottobosco della vendetta. Si distrae. Sente un fischio dell’arbitro e istintivamente si ferma lì nel bel mezzo di quelle acque agitate, cercando di incrociare lo sguardo del direttore di gara. Nel frattempo, con la coda dell’occhio vede Valentin Ivanovič Prokopov che si è sollevato con tutto il corpo fuori dall’acqua caricando il braccio. Sul volto di Zador è come si abbattesse quella colonna di carri armati che qualche settimana aveva transitato per le vie di Budapest. Il tutto dura una frazione di secondo. L’ungherese va sott’acqua, i suoni ovattati, le urla provenienti dagli spalti sono attutite. Quando torna a galla a malapena riprende fiato, mentre la folla è inferocita e il clima adesso è quello di una rissa da saloon.
Il pugno di Prokopov è un tuono che squarcia il silenzio e prelude all’inizio di un temporale. Il sovietico ha zittito la bolgia all’interno dell’impianto e come d’incanto con quel gesto ha colto di sorpresa sia Ervin Zador che l’intero pubblico ora ammutolito. Vendetta nella vendetta, imprevedibilità per imprevedibilità, una rivendicazione di libertà estrema nei confronti di chi aveva impostato un’intera sfida su questi termini. Un momento sospeso come se quel pugno avesse avuto il potere di fermare il tempo. L’acqua della piscina sta cambiando colore, sembra una scena di “Lo Squalo”. Tutto si tinge di rosso. Quel rosso da cui gli ungheresi volevano scappare, il colore simbolo del regime di oppressione. Ervin Zador esce dall’acqua mentre il suo sopracciglio sanguina copiosamente lasciando alle spalle una lunga scia rossa, la stessa che aveva imbrattato i muri e le vie di Budapest.
I fotografi di tutto il mondo immortalano il volto tumefatto del ventunenne Zador. Quel volto è quello di un martire. Quel volto è lo stesso di tanti ragazzi che abbiamo visto nelle fotografie sui libri di Storia lottare nelle manifestazioni di piazza. Quel volto è quello di chi ha realizzato che quel bagno di sangue fu sì una vendetta ma fu soprattutto una rinascita dell’orgoglio nazionale sopito. Zador, uscendo dall’acqua, comprende che la rivincita è una cosa e la vendetta è un’altra e tutto quel dolore che si sta portando dietro non è in grado di cancellarlo, di dimenticarlo, perché quel viso e quel sangue raccontano benissimo ancora una volta come erano andate le cose a Budapest un mese. Prova dolore fisico ma anche morale: i sovietici sono stati sì sconfitti in acqua ma, a casa sua, sono ancora e saranno ancora padroni per lungo tempo. Tempo che è rimasto sospeso perché a questo punto la partita non conta più, vuoi per il risultato ormai acquisito, vuoi perché la piscina si trasforma nel teatro di una gigantesca rissa a bordo vasca e in piscina si scatena una vera e propria lotta senza quartiere dove non ci sono regole e nessuno, tantomeno l’arbitro svedese Zuckermann, può pensare di mettervi fine.
A distanza di decenni, qualcuno mette ancora in dubbio che sia mai stata fischiata la fine dell’incontro. Dagli spalti si riversano in acqua centinaia di spettatori ungheresi e non che vogliono farsi giustizia sui sovietici. La polizia, parafrasando i celebri film poliziotteschi che tanto andranno di moda anni dopo, non può intervenire. Sembra davvero una sequenza tarantiniana. Un’immagine forte che detona con violenza e che non viene restituita dalle immagini televisive dell’epoca ancora in bianco e nero.
La vittoria spalanca la strada all’Ungheria che vince anche l’ultima partita del girone contro la Jugoslavia e conquista la medaglia d’oro, lasciando l’argento agli slavi e il bronzo all’URSS. Zador e i suoi compagni sanno che quello è il loro canto del cigno, il loro crepuscolo degli dei. Non potranno più tornare in Ungheria. La decisione, in realtà, è precedente al via delle Olimpiadi. Scappare è una sorta di ammissione di colpa dal sapore amaro. Non si può, però, tornare indietro. Durante la cerimonia di premiazione, mentre riceve la medaglia d’oro, Zador piange. Piange con quell’occhio a cui è stato necessario apporre tredici punti di sutura. L’Ungheria si impone in piscina e resterà assoggettata al potere sovietico fino alla caduta del muro oltre trent’anni dopo. Ervin Zador si rifugia negli USA dove, quasi a suggellare l’incompiutezza di quella vittoria, spende il resto della sua vita scovando talenti e consegnandoli al mondo dello sport.