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Ciclismo

Giro d’Italia under 23: il ciclismo va dagli spettatori, dalla gente, dal pubblico, entra quasi nelle loro case…

Da Marco Pastonesi 11/06/2018

La corsa a tappe che si conclude il 16 giugno ha tanti motivi, sia tecnici che culturali e sportivi da raccontare….

Ci sono i figli d’arte, come Alexander Konishev, Edoardo Faresin e Gabriele Moreni. Ci sono i fratelli minori, come Brayan Chaves Rubio. Ci sono i nazionali russi e quelli colombiani. Ci sono quelli che corrono nel nome di Sir Bradley Wiggins e quelli grazie all’aiuto di Vincenzo Nibali. Ci sono gli accademici di club professionistici come la belga Lotto Soudal e la kazaka Astana. Ci sono anche gli allievi di Alberto Contador e Ivan Basso. Sono 176 corridori, di 30 squadre (15 italiane), da Porto Sant’Elpidio alla Cina, forti e giovani: il Giro d’Italia Under 23.
   E’ scattato giovedì 6, si concluderà sabato 16, 11 frazioni (un cronoprologo, otto tappe e due semitappe, di cui una, l’ultima, a cronometro) per 1210,5 km, dall’esterno del velodromo Glauco Servadei di Forlì fino al muro di Ca’ del Poggio vicino a Conegliano (Treviso). Era il Giro dei dilettanti, divenne il Giro Baby e poi il GiroBio, adesso è la competizione più importante per il ciclismo giovanile internazionale. Chi cerca un futuro, chi una squadra, chi un contratto. Chi vuole fare classifica, chi esperienza. Tutti cercano e vogliono fare strada. A forza, a colpi, a suon di pedali. Il primo dell’edizione 2017, il russo (ma di San Donà di Piave) Pavel Sivakov, adesso gareggia per la celebratissima Sky.
    Seguire, che poi è abitare il villaggio della partenza e frequentare quello di arrivo, che è accompagnare durante la corsa oppure precederla e osservarla per un attimo, in un rondò o in un tornante, su un cucuzzolo o su un paracarro, qui è più bello che altrove. Perché non c’è l’enormità del Tour de France, non c’è la complessità del Giro d’Italia, non c’è soprattutto la distanza che separa i ciclofili dai ciclisti nelle corse professionistiche. Il ciclismo rimane sport stradale e popolare: è quello che va dagli spettatori, dalla gente, dal pubblico, entra quasi nelle loro case. Ma il mondo, il circo, l’ambiente si è adeguato a quello che succede intorno, ossessionato da una finta privacy: e così gli atleti vivono nei pullman fino a un attimo prima del pronti-via, si nascondono dietro occhiali scuri che oggi si sono ingigantiti a mascherine, protetti da guardie del corpo, filtrati da addetti-stampa, custoditi e centellinati da procuratori. Qui, no: alla partenza i corridori si accampano fuori dai camper, si infilano tra tifosi e curiosi, accettano saluti e complimenti, si prestano ad autografi e selfie, pronti a tutto, con la voglia di esplorare e scoprire.
    E se gli organizzatori – il deus ex machina è Davide Cassani, supervisore delle squadre nazionali nonché presidente dell’Apt dell’Emilia-Romagna e sempre opinionista tv – si pongono come modello il Giro d’Italia dei Froome e dei Dumoulin, qualcosa rimane della antica cultura ciclocontadina, cicloprovinciale, cicloletteraria, che è la fortuna, il tesoro, la cassaforte, il cuore di tutto questo frullare di pedali. I cappelletti e le tagliatelle cucinate da Domenico Marangoni, papà del professionista Alan, con l’infinita sapienza dell’arte gastronomica romagnola; l’omaggio alla corsa di antiche stelle, da Ercole Baldini, campione del mondo nel 1958, a Francesco Moser, campione del mondo nel 1977; la presenza nella carovana di vecchie glorie, da Enrico Paolini, tre volte campione italiano e al seguito dell’Uc Porto Sant’Elpidio, ad Axel Merckx, il figlio del Cannibale, direttore sportivo della statunitense Hagens Berman Axeon; le vetrine ispirate e addobbate, le bici esposte e adornate. Perché il ciclismo si nutre del proprio passato e si fortifica nella propria memoria, si caratterizza nel suo provincialismo (a cominciare dalla ricerca delle strade secondarie) e, allo stesso tempo, si distingue nel suo spirito accentratore (quando trafigge il cuore – alla partenza, agli arrivi, anche nei passaggi – dei centri storici).
    Intanto i 176 onorano la corsa andando a tutta. Le medie previste sulle tabelle di marcia sono sempre inferiori a quelle registrate in gara. Qui la critica è divisa: c’è chi inneggia ai watt e chi se ne preoccupa. Come Carlo Franceschi, il presidente della Mastromarco Sensi Nibali, figura storia del dilettantismo italiano (è il secondo “papà” di Vincenzo): “Quando i miei vanno più forte di quello che io immagino, li porto dal medico sociale”.
    Intanto Cassani si prodiga e si diverte: “Per l’ultima cronometro sperimentiamo un sistema ereditato dallo sci di fondo. La partenza si effettua, come al solito, cominciando dall’ultimo fino al sedicesimo. Poi si cambia. Perché i primi 15 della classifica partiranno in ordine di graduatoria, dal primo al quindicesimo, non a intervalli fissi, ma separati dallo stesso distacco maturato in classifica. Così il primo di questi 15 a tagliare il traguardo sarà il vincitore del Giro d’Italia”. E potrà finalmente alzare le braccia al cielo: un lusso riservato, finora, solo al primo delle tappe in linea, anche se da concedersi a ragion veduta. Sul traguardo di Forlì, il belga Gerben Thijssen non resisteva alla tentazione, alzava le mani dal manubrio e festeggiava il successo, il veronese Giovanni Lombardi lo bruciava sprintando con il colpo di reni.
   Centocinquant’anni di ciclismo, sotto lo striscione dell’arrivo, non sono ancora stati sufficienti per insegnare, e imparare, la lezione.
Marco Pastonesi
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Nota sull’autore: Marco Pastonesi

Genovese, ha seguito 15 Giri d'Italia, 10 Tour de France, 4 Coppe del mondo e 18 Sei Nazioni di rugby. Ha scritto, fra l’altro: Pantani era un dio, L'Uragano nero, Gli angeli di Coppi e I diavoli di Bartali, Ovalia - il dizionario erotico del rugby.

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