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Pallacanestro

“Sorrido sempre per ringraziare di ciò che ho” – Intervista a Mangok Mathiang

Da Cristina Marinoni 14/01/2019

La fuga dalla guerra in Sud Sudan, dove sogna di aprire un'accademia di basket, la famiglia e l'affetto della squadra: il pivot della Vanoli Cremona si racconta.

Grazie al sorriso e ai modi gentili, Mangok Mathiang (detto Mango, anche perché è questa la pronuncia del nome) ha conquistato subito tutti, quando è arrivato a Cremona a inizio stagione.

Dagli Stati Uniti: il pivot nato in Sud Sudan nel 1992 l’anno scorso aveva giocato nel Greensboro Swarm in G-League e, in precedenza, in Nba con il team di proprieta di Michael Jordan, i Charlotte Hornets. “Un bel salto, attraversare l’oceano: ho accettato l’offerta della Vanoli Basket perché mi piacciono le sfide. Sono qui per crescere: come giocatore e come uomo” spiega.

Ti sei lanciato nell’ennesima avventura della vita.
“Proprio così. A 5 anni ho lasciato Juba, la capitale del Sud Sudan, insieme a mamma e quattro fratelli: papà è rimasto in Africa e abita ancora lì. Siamo scappati dalla guerra e abbiamo raggiunto prima l’Egitto e poi l’Australia”.

In America ti sei trasferito da solo?
“Sì, a 18 anni: ho terminato le Superiori e l’università: mi sono laureato in Comunicazione e marketing. Devo tutto allo sport, laurea compresa: non avrei completato gli studi, se non avessi fatto parte di una squadra”.

Cos’hai imparato dal basket?
“La disciplina, che mi è servita sui libri: impegno e serietà sono indispensabili per ottenere i risultati. In qualsiasi ambito”.

È vero che è stata tua madre a convincerti a giocare con la palla a spicchi?
“Più che altro, mi ha obbligato (ride, ndr). Io avrei continuato a footie, il football australiano, che è simile a quello americano ma si gioca su un campo ovale in 18, senza indossare protezioni.
Tornavo sempre a casa ammaccato e mamma era preoccupatissima per le mie ossa. Avevo 16 anni ed ero già alto, adesso misuro 210 cm, e mamma mi ha proposto di abbandonare il prato in favore del parquet: mi ha dato un ottimo consiglio”.

Africa, Australia, Stati Uniti, Europa: sei un cittadino del mondo. Dove ti senti a casa?
“Ovunque, sono un mix di culture e di lingue: parlo Dinka, la mia lingua madre, inglese, in Egitto ho imparato l’arabo, e comincio a dire qualche frase in italiano.
Però le mie radici affondano in Africa. Sono tornato a Juba, la capitale del Sud Sudan, la scorsa estate e ho incontrato mio padre, che non vedevo da quando ero bambino. La mia terra è splendida e le persone sono speciali, perccato siano martoriati dalla guerra e sembra che non ci sia via d’uscita”.

La situazione com’è?
“Abbastanza tranquilla, almeno in apparenza. Vorrei tanto aiutare il mio Paese, devo solo capire come. Ho sentito parlare dell’organizzazione Medici con l’Africa Cuamm, molto attiva in Sud Sudan: li contatterò e darò la mia disponibilità totale e chissà, un giorno non riesca ad aprire un’accademia di basket. È il mio sogno”.

La prime cose che ti hanno colpito dell’Italia?
“Le dimensioni ridotte: tutto è piccolo rispetto agli Stati Uniti e all’Australia, dalle case alle automobili, naturale che la mia altezza non passi inosservata. Poi i tifosi super appassionati, più che in America: i nostri ci seguono ovunque e un gruppetto non perde nemmeno un allenamento.
E voi italiani in generale: siete calorosi e generosi in modo incredibile. Sai che siete simili a noi africani? Per il legame stretto con la famiglia, l’affetto verso il prossimo. Lo dico per esperienza personale: mi avete accolto a braccia aperte”.

Ti trovi bene qui, allora.
“Benissimo. Lo ripeto a mamma al telefono e non vedo l’ora che venga a trovarmi, in primavera: mi manca da matti, anche se il club è già diventato una famiglia. Il team manager Mauro Saja mi segue come un fratello maggiore, Meo (coach Sacchetti, ndr), è straordinario e Travis (Diener, ndr) mi ha adottato: mi invita spesso a casa, e anche sua moglie e i figli sono sempre carini con me. Sono grato a Dio per i doni che ricevo ogni giorno: so di essere molto fortunato”.

Ecco perché sei sempre sorridente. Spesso anche in campo.
“Attraverso il sorriso dimostro quanto ami il mio lavoro. Sono cattolico e la Bibbia mi ha insegnato che, se metti il cuore in ciò che fai, non può succederti niente di brutto. Mia mamma è l’esempio che seguo sin da piccolo: il suo amore immenso mi ha permesso di crescere in serenità, e mi incoraggia a guardare al futuro con ottimismo”.

 

*Foto : Zovadelli/Vanoli Basket

Tags: #Mangok Mathiang, #Vanoli Basket

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Nota sull’autore: Cristina Marinoni

Giornalista professionista, è laureata in Lingue e letterature straniere moderne e si divide felicemente tra sport e musica (con qualche incursione nella moda, dove tutto è cominciato). Le interviste, che esplorano le persone dietro ai personaggi, sono il suo pane quotidiano.

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