In un tempo in cui siamo condannati alla solitudine, mi piace ricordare i giorni in cui attraversavo il mondo andando a caccia di storie da narrare. Non è una classifica dei migliori match della mia vita, né dei più importanti. Sono semplicemente dieci incontri che mi hanno regalato intensi ricordi.
«’nu furto clamoroso, il più grande che aggio visto inta ‘a vita mia».
Così mi dice Patrizio Oliva, che aggiunge: «Dario, aveva vinto senza alcun dubbio. Vogliamo scherzare? Ma qui ce l’avrebbe fatta solo mettendolo ko».
Sono dietro le transenne che separano i giornalisti dagli atleti. Attorno c’è confusione, rabbia, delusione. Ho appena assistito a un autentico furto, l’ennesimo di un’edizione nefasta per lo sport del pugilato.
Francesco Damiani è il coach della squadra azzurra, il responsabile tecnico. Scappa via, non vuole parlare. Lo conosco da tanti anni, lo cerco al telefono, mi dice poche cose prima di sparire. Poche parole, bastano però per capire come si senta.
«Non voglio parlare di quello che è accaduto in questa finale. Per me il pugilato dilettantistico è morto qui, in questa Olimpiade. Non è più lo sport che conosco».
Da una vita è in palestra, prima da pugile e poi da maestro. Sa cosa significhi la fatica di un allenamento, l’ansia per il match, la durezza dei colpi e il dolore che provocano. Serve qualcosa di magico per superare tutta questa sofferenza e andare avanti. È quello che solo alcuni riescono fare.
Nino Benvenuti me lo ha detto più di una volta Nino Benvenuti.
«La boxe è uno sport per pochi».
Questa di Londra 2012 è stata un’Olimpiade disastrosa. Verdetti assurdi, risultati ribaltati, reclami a ogni sconfitta. Mi hanno appena detto che anche l’Italia ne ha presentato uno per la finale supermassimi, sarà inevitabilmente respinto. La boxe dilettantistica sta morendo, sono qui a celebrarne il funerale.
“Cammarelle va a caccia di un oro difficile da conquistare, per riuscirci dovrà boxare con la stessa determinazione con cui ha sconfitto Zhang Zhilei a Pechino, quando ha battuto il cinese in casa sua nell’unico modo possibile. Per kot. Un successo ai punti, comunque vada il match, lo vedo molto improbabile”, questo ho scritto prima del match contro Anthony Joshua.
Facile profezia. L’azzurro ha dominato la sfida, tranne che nella seconda metà dell’ultimo round, ma si è visto assegnare la sconfitta alle preferenze. E questa è un’altra assurdità. Neppure se a giudicare la finale fossero stati i parenti più stretti di Joshua sarebbe finita così. Arriva Roberto Cammarelle, quando lo vedo capisco cosa sia il dolore per uno che mastica pugilato da sempre.
Sul ring sembra che nessun pugile lo senta. Il dolore arriva quando ti rendi conto che non puoi vincere, è il sapore amaro della sconfitta il dolore più forte. La ferita, il colpo allo stomaco, il pugno potente sul momento pesano meno. Le sofferenze fisiche arrivano la mattina dopo, quando ti sembra che ogni parte del tuo corpo urli per i colpi presi la sera prima. Anche un sospiro provoca fitte lancinanti. Ma sul ring spesso la sofferenza è solo per il risultato. Perché il pugile ha paura, ma non di farsi male. Ha paura di perdere.
E se sai che la sconfitta non è nata da una tua debolezza, ma dal giudizio sbadato, sbagliato, incompetente o chissà cosa di chi dovrebbe gestire la correttezza del risultato, il dolore è ancora più grande.
Guardo Roberto e non vedo furore, non è da lui. Ma una tristezza infinita per qualcosa che proprio non riesce a comprendere.
«È stata commessa un’ingiustizia. È stato formulato un verdetto casalingo. Non mi spiego perché sia potuto accadere. Mi brucia. Nella terza ripresa non sono andato al massimo, ma non pensavo di averla persa di tre. E nelle prime due mi manca qualche punticino. Tutti quelli con cui ho parlato mi hanno detto che avevo vinto io, solo quelle cinque persone che siedono attorno al ring e decidono della vita di un pugile hanno visto un’altra cosa. Sono tre anni che mi danno contro e non capisco il perché. Non ho nulla contro Joshua, sarei poco intelligente se dicessi il contrario. Sapevo che avrei rischiato un verdetto casalingo, ma penso di avere fatto ogni cosa per non permettergli di formularlo. È un risultato che mi brucia. Tra vent’anni la gente non ricorderà più il match, né che è finita in parità. Ricorderà solo che ho perso la finale olimpica. Non vado oltre perché non mi sembra bello stare qui tra italiani a cantarcela fra di noi. Quelli che ne capiscono sanno come è finita, quei cinque uomini non sono stati d’accordo. Non ho perso, potevano almeno dare un oro ex aequo. Non lo dico certo per il premio. Se mi proponessero uno scambio l’accetterei subito: niente soldi, ma una giusta vittoria. Mi sta bene. Firmo. Voglio la gloria, voglio l’oro. Adesso chiamerò mia moglie che mi dirà: sei stato bravo, sei bellissimo, ma ti hanno fregato, è una vergogna. Lei è più diretta di me. Voglio tornare a casa, mi manca la famiglia. Mi mancano moglie e figli. Adesso finalmente avrò più tempo per loro, mi piace fare il padre. Alla fine ero stanco, sono critico nei miei confronti. Ma devo anche dire che l’Aiba non mi appartiene più, è un pugilato che non mi piace, non mi rappresenta. E adesso vado, sono stanco».
Anthony Joshua, AJ per tutti, ha appena cominciato la sua scalata nel mondo della grande boxe. E l’ha fatto con uno scippo, sportivamente parlando.
Vado via anch’io, disgustato per quello che ho visto e, come tutti noi, preso da un senso di impotenza. L’arroganza del potere sportivo non è mai stata così forte come in questa Olimpiade londinese.
Ha ragione Patrizio Oliva.
«’nu furto clamoroso, il più grande che aggio visto inta ‘a vita mia».
(tratto da I MIEI GIOCHI di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free)