Bloooog!
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Tu mi chiedi chi era Zamora, che, chiariamolo subito, col derby di Milano non c’entra nulla se non per motivi letterari e cinematografici. Anche se alla fine tutto finisce lì dentro. Tutto nella vita, in fin dei conti, è derby.
Se anche esistesse davvero uno cui non gliene frega assolutamente niente del football – anzi el folber, per dirla in dialetto milanese che agli inizi del secolo scorso storpiava così la parola inglese football o quella tedesca fußball – credo sia impossibile non imbattersi, soprattutto adesso, nel derby di Milano, non sentirne il respiro, la pressione, la passione, la storia, l’enorme coinvolgimento popolare. Dalla city meneghina del grande business finanziario fino alle osterie del Giambellino.
Non so se vi sia mai capitato di frequentarne qualcuna, di queste osterie, posto che ne esistano ancora, in ogni caso per un ripasso consiglio “La ballata del Cerutti” o “Trani a gogo” di Gaber.
Trani, tanto per sintetizzare, era il nome con cui si indicavano queste osterie dei quartieri popolari milanesi, solitamente gestite da pugliesi immigrati e che da Trani o altri paesi del sud facevano arrivare anche un vino a buon mercato. Buono per giocare a scopone – spesso trascinato dal mio amico collega Franco Rossi mi sono imbattuto anche nei tavoli da gioco attrezzati con tendine in maniera che i giocatori non potessero scambiarsi i famigerati cenni – fumare nazionali senza filtro come ciminiere, bere Barbera o vino a buon mercato appunto. E ovviamente scontrarsi tra bauscia (interisti) e casciavit (milanisti).
Pensate quanto possa essere distante il derby di oggi da quelli anni 60 di Rivera e Mazzola. Pochissimi di quelli che si affannano oggi intorno al calcio, come semplici appassionati o come tifosi di Milan o Inter, o anche come addetti ai lavori, pensano di avere alle spalle quella storia lì. Eppure è così. E’ una catena sentimentale, i tifosi e i campioni di oggi danno una mano a quelli di ieri, e tendono l’altra a quelli di domani. E così ci sembra di stare sempre dentro lo stesso pallone che viene preso a calci da cento anni a questa parte. Del resto se ci si affanna tanto intorno alla seconda stella, è perché qualcuno ha vinto i 19 scudetti precedenti, dall’una o dall’altra parte.
Ho passato un paio d’ore a vedere Zamora di Neri Marcorè che tutto questo racconta magnificamente, in maniera assolutamente delicata, originale, e con una passione per el folber davvero travolgente, leggera, divertente, morbida, appassionante.
Il calcio come piace a tanti di noi. Il derby immerso dentro una meravigliosa Milano anni 60, palpitante di boom economico, è in realtà trasposto in una partita scapoli-ammogliati, che cinematograficamente mescola “Fuga per la Vittoria” di John Houston con Sylvester Stallone (1981) nella parte del portiere pippa che fa miracoli e la mitica partita di pallone in Fantozzi (1975). Il tutto accompagnato dalla musica e dalle hit di allora. Adesso riascoltiamo Jimmy Fontana, magari, se tra cinquant’anni faranno un altro Zamora, ci metteranno Fedez e Mamhood. E in sala avranno tutti gli occhi lucidi…
“Zamora” e “C’è ancora domani”. Non mettiamo il marchio della nostalgia sempre su tutto. E’ normale che si guardi al passato come parte essenziale e fondamentale di noi stessi. Due film di successo sia pure in maniera diversa, raccontano l’Italia di cinquanta o anche settant’anni fa. E’ evidente che non si possa rimanere indifferenti di fronte a diritti, sentimenti, passioni che ci uniscono e ci tengono insieme come società, o anche semplicemente comunità di lavoro. Questo siamo. Questo vuol dire anche el folber, per dirla alla commendator Tosetto, Giovanni Storti: “Dio, Tosetto, le guarnizioni e il folber…”
Zamora, il classico soprannome da affibbiare alla pippa che finisce inevitabilmente in porta, non è un film nostalgico, è un film che ci racconta da dove veniamo e che ci dice come siamo fatti, perché il nostro cuore batte da una parte o dall’altra. E che il calcio è la più grande, magnifica, spettacolare metafora della vita. Per questo siamo qui e ne parliamo ventiquattro ore su ventiquattro
Merito di Marcoré, di uno straordinario cast di attori che ha nel cast delle figure di contorno (Giovanni Storti, Giacomo Poretti, Antonio Catania, Ale e Franz) il pregio della costruzione di quell’atmosfera unica e avvolgente.
Ma soprattutto è merito del libro di Roberto Perrone, grande e prestigioso collega della redazione sportiva del Corriere della Sera, miei dirimpettai per qualche decina di anni di lavoro, e amico con cui ho diviso parecchio calcio e anche parecchio sano cazzeggio, un tempo parte integrante del nostro mestiere e ora invece assai tabù. Soprattutto a lui va il grazie per tutto questo.
Roberto Perrone purtroppo se ne è andato poco più di un anno fa, era da poco andato in pensione, anche se continuava ad affannarsi con le sue tante passioni. Il calcio era tra queste.
Articolo e foto ripresi da www.bloooog.it, il Bar Sport di Fabrizio Bocca