Nella penultima tappa del Giro d’Italia 2015, la Saint Vincent-Sestriere, 196 km e, nel finale, due salite: prima il Colle delle Finestre, Cima Coppi con i suoi 2178 metri alpini, sterrati, minerali, poi il Sestriere, appunto, torreggiante, che fa più danni perché dannatamente pedalabile. A 200 metri dall’arrivo, quando di solito smetteva di pedalare e cominciava a respirare, stavolta Marco Coledan si fermò. Fabio Aru, il felice vincitore di giornata, aveva già baciato le miss sul podio e lanciato i fiori in platea.
Alberto Contador, l’ormai certo trionfatore del Giro, stava distribuendo sorrisi dentali e frasi fatte in sala-stampa. Erano passati più di trequarti d’ora e all’arrivo mancavano solo due corridori: lui, Coledan, e il tedesco Roger Kluge. Coledan era lì, ai 200 metri, lo si vedeva, piedi a terra e bici alle transenne. Kluge no, non lo si vedeva, probabilmente stava balbettando le sue ultime, vuote, disperate pedalate, o forse stava finalmente apprezzando panorama e paesaggi, vette e popolo, corsa e ciclismo. Finché Kluge apparve. Solo allora Coledan risalì sulla bici e lo scortò al traguardo. Morale: centosessantaduesimo e penultimo Kluge a 53’30” da Aru, centosessantatreesimo e ultimo Coledan con lo stesso tempo. Un atto di generosità, un patto di solidarietà, un gesto di umanità? Un inno a De Coubertin, un elogio al fair play? Un “Padre nostro” ciclistico?
Macché. Coledan stava difendendo valorosamente il suo ultimo posto nella classifica finale, virtuale maglia nera. Aveva poco più di 6 minuti di vantaggio-svantaggio su Kluge e non voleva cedere il suo primato, seppure alla rovescia, a un corridore magari inconsapevole della bellezza unica di entrare nella storia della Corsa Rosa, anche se dalla porta di dietro. Ed è per questo che, a scanso di equivoci e inganni, furbizie e finzioni, Coledan si incollò alla ruota del tedesco. Infatti, nella classifica finale del Giro: centosessantaduesimo e penultimo Kluge a 6.33’40” da Contador, centosessantatreesimo e ultimo Coledan a 6.40’13”. E pazienza se la giuria del Giro, insensibile e pignola, multò Coledan per aver violato l’articolo 12.1.007: “I corridori devono difendere sportivamente le loro possibilità”. Che sciocchezza: lui lo aveva fatto, anche con grande senso storico. Ieri sera Marco Coledan, con un laconico post su Facebook, ha dato l’addio. Una foto che lo ritrae a meno di 500 metri dall’arrivo, da solo, a tutta, ventre a terra, fauci spalancate, davanti al gruppo che lo sta crudelmente aspirando e inghiottendo. Una didascalia che recita “e finisce tutto qui… dopo 7 anni si chiude la mia parentesi sul ciclismo professionistico”. Secondo la graduatoria a punti Pcs del 2018, è il corridore numero 952. Secondo la classifica mondiale dell’Uci, è addirittura il numero 2258.
Ma graduatorie e classifiche sono solo statistiche, aride e autistiche. Tant’è vero che Coledan vale infinitamente di più. Lo si capisce dal cognome, un cognome che scivola via, lenticolare, rotondo, perfetto per il ciclismo, forse ancora di più per la discesa libera o il canottaggio. Lo si capisce dall’anagrafe, trevigiano di Motta di Livenza, ma residente a Lutrano di Fontanelle, la pianura come un destino, come un limite illimitato, come un orizzonte orizzontale. Lo si capisce anche dall’età, 30 anni, adesso, anzi, lo scorso 22 agosto, ultima occasione per quelli del leone, e qualcosa di leonino ce l’aveva addosso, meglio, dentro. E lo si capisce soprattutto dalla famiglia, papà Gabriele, mamma Ornella e tre figli, nell’ordine Mattia, Marco e Massimo. Mattia il primo in bici: smesso da junior, senza vittorie, poi camionista, come il papà. Massimo l’ultimo in bici: smesso da élite primo anno, peccato, andava forte, campione italiano crono, poi operaio, come la mamma.
Così, senza farglielo pesare, tutti e tutto addosso a Marco, un metro e 90 fissi per 82 kg molto variabili, razza Piave, avrebbe potuto giocare a rugby, invece cominciò con il calcio, poi provò con il ciclismo e non se n’è mai pentito, anzi, l’ha sempre così amato da dividersi raddoppiandosi, strada e pista. Cinque anni da dilettante nella Trevigiani, che quanto a vivaio nel ciclismo vale quello dell’Atalanta nel calcio. Un anno nella Colnago e due nella Bardiani (con i Reverberi), finale burrascoso, tre anni nella Trek, uno, l’ultimo, questo, nella Wilier Triestina-Selle Italia. Una dozzina di vittorie da dilettante, un titolo italiano e uno europeo da junior in pista, tre titoli italiani da dilettante in pista, sei titoli italiani da professionista in pista, acrobaticamente fra inseguimenti individuali e a squadre, corse a punti e dietro derny, e poi ancora Tre sere e Sei Giorni, americane e criterium, e una vittoria nella Coppa del mondo, inseguimento individuale, a Manchester, il tempio del rinascimento inglese su pista. Vittorie su strada una, una sola, quest’anno, al Giro del Marocco, ma vittorie in società, in comproprietà, in prestito, a decine.
Perché la sua specialità, e la sua specializzazione, era quella del pesce-pilota: l’ultimo uomo, l’ultimo vagone, l’ultimo fuoco prima di lanciare al traguardo il capitano-velocista. Vinceva, Coledan, ma per procura. Chi sapeva, riconosceva. E chi non sapeva, non capiva, non poteva capire e neanche immaginare che cosa significhi il coraggio di lanciare uno sprint quando si varca lo striscione dell’ultimo chilometro, e la forza di tenere i sessanta in quel preciso tempo e spazio, e la generosità di rialzarsi già appagati, vincitori comunque, quando mancano solo 200 metri alla linea del traguardo, quella linea bianca che scrive le statistiche ma non la storia, e che non racconta mai la verità fino in fondo. Coledan è diventato uno dei miei corridori preferiti al Tour of Antalya 2018, in Turchia.
Era il 23 febbraio: freddo, pioggia, nebbia o nuvole basse, se non ha nevicato è perché poco ci è mancato, e come se non bastasse era la tappa regina, prima un paio di salite per intristirsi e un paio di discese per congelarsi, poi una salitona, dolorosa e impietosa, per maledire e forse maledirsi. Coledan – la salita non è mai stata il suo forte – si è messo a disposizione del suo capitano-velocista, “Kuba” Mareczko, e lo ha scortato, accompagnato, tirato, spinto, incoraggiato, rincuorato, assistito. Finché, a una cinquantina di chilometri dal traguardo, si è messo in testa al gruppo dei ritardatari e, in una sorta di gigantesco inseguimento a squadre, ma tirando sempre e soltanto lui, ha battuto non solo i denti ma anche il tempo, ha scandito il passo, ha dettato l’andatura, ha dato il ritmo, ha fatto la velocità, infine ha pure sprintato, salvando metà gruppo dal fuori tempo massimo, Mareczko compreso.
Un turbodiesel muscolare, Coledan: i quadricipiti come cilindri, i garretti come bielle, la schiena come alettoni dietro cui compagni e colleghi sfruttavano la scia come se fosse stata quella di una moto, se non di un camion, o di un’arca di Noè del terzo millennio. Non è vero che finisce tutto qui, Coledan. E se anche fosse, amen: nella vita un pesce-pilota saprà sempre come nuotare, anche, soprattutto, con l’acqua alla gola.