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Golf

Il drive di Johnson e Rahm sta cambiando (in peggio) il golf?

Da Vincenzo Martucci 28/03/2017

Il WGC di Austin, in Texas, premia lo statunitense Dustin Johnson, numero 1 del mondo da un mese. Che diventa il primo della storia a vincere tutti e quattro i tornei di questa categoria, come non era riuscito nemmeno a Tiger Woods, e marcia da favorito al Masters di Augusta del 6 aprile.

Forte del terzo successo di fila in tre tornei da quando, un mese fa, è salito in testa al ranking mondiale, del nuovo allungo su Rory McIlroy – 12,80 contro 9,01 -, del 15° titolo in carriera e dell’assegno di 1 milione e 660.000 dollari, con cui, a quota 5.346.600, supera in vetta alla money list stagionale il giapponese Hideki Matsuyama (4.529.757) e comanda ora anche nella ricca graduatoria FedEx Cup. Anche se il 32enne statunitense, alto 1.93, al di là dei progressi sul green, colpisce soprattutto per la straordinaria fisicità e, quindi, per l’impressionante potenza. Qualità che, nel golf, non sempre ha premiato, promuovendo piuttosto atleti più piccoli, magari col baricentro basso e il misurino nel braccio, perché alla fin fine quel che conta è far rotolare e non volare la palla. Ma di certo chi può sfruttare il vantaggio di una quarantina di metri con la prima palla parte avvantaggiato rispetto ai compagni di gara e, psicologicamente li mette sotto pressione, spingendoli a fare di più e meglio.

Domenica, come tante altre volte ormai sul Pga tour, il protagonista è stato il drive, davvero impressionante di Johnson, e soprattutto di Rahm. Sul par 5 della buca 12 di 581 yard (531 metri) del match play in Texas, con scontri diretti su 18 buche con ogni buca che dà un punto a chi la vince, il drive dello spagnolo è infatti volato per addirittura 438 yard (400,507 metri) e quello di Johnson per 424 (387,706). E sulla 18, di 359 yard, il 22enne spagnolo – cinque piazzamenti fra i primi 5 negli ultimi 5 tornei – ha volato tutto il green, coprendo ben 382 yard dal tee, confermandosi uno dei prospetti più interessanti, a dispetto della stazza – 100 chili per 1.88 – che ricorda un po’ il Nicklaus del 1962. Tanto che l’ex n. 1 amateur, di scuola Usa, sfoderando un notevole personalità, ha quasi rimontato Johnson da 5 a 1 down. Sfiorando l’impresa di diventare il più veloce a entrare fra i “top ten” da neo pro e il terzo più veloce da quando esiste il ranking, nel 1986, dopo Woods e l’altro spagnolo Sergio Garcia. E, dopo dieci mesi sul Pga Tour, deve “accontentarsi” del numero 14 del mondo, dal 137 di dicembre.

La sua crescita dipenda dall’arma paralizzante, il drive, appunto. I due enti preposti alle regole, per l’Europa The R&A (il Royal & Ancient Golf Club of St. Andrews), in Scozia, per Stati Uniti e Messico la United States Golf Association (USGA), minimizzano l’incremento della distanza media del primo colpo dal tee, dimostrando coi dati che è cresciuta soprattutto dal 1993 al 2003 di 27 yard (24,6888 metri). Per toccare i 290 nel 2016, grazie ai driver oversize, a quelli in titanio, e alle nuove palle. Pure l’aumento di velocità media della palla in uscita dal bastone non è poi così impressionante: da 165 miglia all’ora (265.54 chilometri all’ora) a 167.7 (269,88). Quello che è davvero aumentata tanto è stata la percentuale di drive sopra i 300 yard: dal 26.6% dal 2003 al 31.1 dell’anno scorso. Quasi alle cifre-record del 32.6% che scandalizzarono tanto nel 2011. E se andiamo a leggere i numeri dei primi in classifica, scopriamo che il numero 2 del mondo, McIlroy, ha 318.8 cards di media, contro le 316.2 del numero 1, Johnson, con i primi 36 della speciale classifica sopra le 300 yard di media col primo colpo, e altri 90 sopra le 290. Significa tanto, significa che, con l’incremento della distanza del drive, cambiano anche i ferri da portare nella sacca, e cambia il golf. In peggio. Anche perché resta un gioco per amateur, che non si rispecchiano più in quello che vedono a livello più alto la tv. Un po’ come succede col tennis maschile, sempre più legato al servizio e alla potenza. Ma, una volta persa la battaglia contro i materiali (racchette, ferri, bastoni) sempre più leggeri e potenti, e contro la palla (sempre più piccola e veloce), si è persa anche la guerra, a discapito della tecnica e dello spettacolo. Anche se poi, come dicono i golfisti, tutto si gioca sul putt.

Vincenzo Martucci

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Nota sull’autore: Vincenzo Martucci

Napoletano, 34 anni alla Gazzetta dello Sport, inviato in 8 Olimpiadi, dall’85, ha seguito 86 Slam e 23 finali Davis di tennis, più 2 Ryder Cup, 2 Masters, 2 British Open e 10 open d’Italia di golf. Già telecronista per la tv svizzera Rsi; Premio Bookman Excellence.

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