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Ciclismo

La quinta tappa, e Nibali vinse il Tour!

Da Marco Pastonesi 14/05/2018

L’impresa dell’azzurro del 2014 diventa un libro, scritto a quattro mani, o forse due gambe e due mani, le gambe dell’atleta e le mani (dita, anzi, indici) dell’autore…

La quinta tappa è quella del Tour de France 2014. La Ypres-Arenberg Porte du Hainaut. Una tappa attesa, temuta, rispettata. La tappa del pavé, della Parigi-Roubaix, del pavé della Parigi-Roubaix. Una tappa avversata, caratterizzata, perseguitata dal maltempo, pioggia e freddo, che significa fango, una giornata invernale in piena estate, era il 9 luglio. Una tappa accorciata: visto il cielo, eliminati due tratti infernali, totale chilometraggio 155,5. Quel giorno Vincenzo Nibali non vinse la tappa, ma il Tour. Arrivò terzo, ma rifilò minuti agli avversari. Chris Froome cadde e abbandonò la corsa. Gli altri cominciarono già ad abbandonare le speranze di poter contrastare Nibali. A parte il primo giorno (maglia gialla a Marcel Kittel: volata) e il nono (maglia gialla a Tony Gallopin: fuga), il resto si rivelò una marcia trionfale: 3664 chilometri in 21 tappe con quattro vittorie di tappa più la classifica generale, un vantaggio di 7’37” sul secondo, Jean-Christophe Péraud, e di 8’15” sul terzo, Thibaut Pinot, francesi, stavolta più rassegnati che incazzati.
La quinta tappa è diventata memoria e testimonianza, storia ed epica, punto di arrivo e di ripartenza, e anche un libro: “La quinta tappa” (Rizzoli Lizard), scritto a quattro mani, o forse due gambe e due mani, le sue gambe e le mie mani (dita, anzi, indici). Una tappa che è una corsa, una corsa che è una carriera, una carriera che è una vita. Una tappa vitale, esistenziale, biografica. Una tappa che è cronaca, ma anche viaggio e racconto, il racconto di un viaggio dentro un atleta, un corridore, un campione. Perché una tappa – e in particolare quella quinta tappa – è un frullato di polpacci e pensieri, un caleidoscopio di colori e dolori, una centrifugata di pedalate ma anche di sogni, voglie, desideri, speranze, sensazioni, emozioni. Così è stato una specie di Trofeo Baracchi, una cronocoppie, ognuno impegnato a fare, e a dare, la sua parte. Così ho cercato di tradurre l’adrenalina in parole e l’acido lattico in punteggiatura, così ho provato a rendere la pedalata rotonda in lettura rotonda, così ho tentato di trasformare i brividi in lettere, le schegge in un pezzo, i coriandoli in una pagina.
Il libro è uscito alla fine di aprile ed è stato presentato due volte, ad Abbiategrasso (iniziative culturali in attesa del Giro d’Italia) e a Cattolica (Granfondo Squali Carrera). Nel primo caso: parole orali per spiegare, raccontare, descrivere parole scritte. Nel secondo: non solo parole, ma anche pedalate. Nibali è stato generoso: sì a qualsiasi richiesta di autografo e fotografia, sì a domande e risposte, sì a strette di mano e ad abbracci. Forse se ne farà una terza, alla fine della stagione, a Mastromarco, dove Nibali è emigrato da ragazzino ed è diventato corridore, ed è diventato anche uomo, bruciando i tempi. Le sue giornate sono esaurite, soprattutto adesso: oggi va a Tenerife, due settimane sul Teide, ad allenarsi e a riposarsi, insomma a vivere, in altura, due settimane per rigenerarsi e prepararsi al Tour de France 2018, magari anche a un’altra quinta tappa.
Com’è Nibali?, mi domandano. Nibali lo conosco da quando passò professionista, nel 2005, e la squadra lo portò al ritiro subito prima della partenza del Giro d’Italia, ma non glielo fece correre, perché respirasse l’atmosfera della vigilia, l’elettricità dell’attesa, l’aria della leggenda. Una conoscenza alimentata dalle corse, verificata dalle interviste, consolidata dagli sguardi, irrobustita dalle amicizie comuni. Nibali è semplice, genuino, vero. Nibali è più aperto di quello che lui stesso dica, e certi silenzi – si sa – parlano. Nibali è di parola. Nibali non si tira indietro. Nibali ci mette anche la faccia, oltre che il cuore, l’anima, lo spirito. Nibali ha profondità e spessore, è tridimensionale e non superficiale e mai superbo. Nibali è un corridore così antico da essere all’avanguardia, avrebbe potuto correre con Bartali e Coppi, lo fa con Froome e Quintana, allora i distacchi sarebbero stati chilometrici, adesso istantanei, ma la sua natura di attaccante – quello che fa impazzire la gente – l’avrebbe potuta dimostrare anche 70 anni fa. O almeno io la penso così. Se fosse un artista?, mi chiedono. Nibali è un artista, perché non si è artisti solo con il pennello o lo scalpello, ma anche con il 53×11, non si è artisti solo quando si è dentro il Louvre, ma anche quando si va su e giù dal Poggio.
Non so se in “La quinta tappa” ci sia la quintessenza di Nibali. Attendo – sapendo di avere avuto il privilegio di questa escursione dai miei gregari, e di questa immersione in un campione – giudizi.
Marco Pastonesi
Tags: e Nibali vinse il Tour!, La quinta tappa

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Nota sull’autore: Marco Pastonesi

Genovese, ha seguito 15 Giri d'Italia, 10 Tour de France, 4 Coppe del mondo e 18 Sei Nazioni di rugby. Ha scritto, fra l’altro: Pantani era un dio, L'Uragano nero, Gli angeli di Coppi e I diavoli di Bartali, Ovalia - il dizionario erotico del rugby.

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