Nella pioggia di riconoscimenti che piovono sul tennis mondiale ce n’è uno indimenticabile: la sconfitta più clamorosa del decennio, subita da Serena Williams per mano di Roberta Vinci nelle semifinali degli Us Open 2015. Diremmo anche di sempre del tennis donne.
La numero 1 del mondo era stra-favorita per aggiudicarsi il quarto Major stagionale, dopo Australian Open, Roland Garros e Wimbledon, e chiudere il Grande Slam, emulando così Maureen Connolly che ci riuscì nel 1953, e quindi Margaret Smith Court e Steffi Graf che ce l’hanno fatta nel tennis Open, rispettivamente nel 1970 e nel 1988. L’afroamericana più famosa dello sport arrivava a quella partita con un bilancio stagionale mostruoso di 53 vittorie e due sole sconfitte. Aveva battuto, quattro volte su quattro, la piccola tarantina dal braccio d’oro, schiacciandola con la sua potenza, sul cemento come sull’erba come anche sulla terra rossa, e senza concederle alcun set.
Di più, molto di più: la 32enne italiana era targata appena numero 43 del mondo, non era mai arrivata così avanti in un torneo importante, men che meno in un Major, e stava disputando uno dei suoi anni peggiori: aveva fallito ancora l’ingresso alle “top ten”, aveva perso malamente in Fed Cup contro la Francia, s’era separata da Sara Errani dopo i cinque Slam vinti insieme in doppio, era rimase coinvolta nei tanti bisbiglii che avevano accompagnato quel misterioso divorzio, aveva perso al primo turno non solo al Roland Garros, ma anche sull’amata erba, a Birmingham, Eastbourne e Wimbledon, aveva preferito presentarsi per la prima volta senza il fido coach Francesco Cinà a un paio di tornei prima degli US Open.
Nessuna sorpresa che un suo successo sulla 33enne Serena – forte dell’esperienza e della caratura di 21 titoli Slam – fosse offerto dai boomakers addirittura 300 a 1, una cifra folle. Che non aveva caratterizzato altre clamoroso sorprese del tennis. Né per Robin Soderling che aveva stoppato Rafa Nadal al Roland Garros 2009, né per George Bastl che aveva fatto lo sgambetto a Pete Sampras a Wimbledon 2002, né per Melanie Oudin che aveva eliminato Maria Sharapova sempre a New York 2009, né per Mary Pierce che aveva fatto il colpaccio contro Steffi Graf al Roland Garros 1994.
Il tonfo di Serena è stato più eclatante, inatteso e ricco di significati. Proprio non era previsto dai numeri, dalle statistiche, dalla storia che, peraltro, non aveva mai visto un’italiana in finale sul cemento degli Us Open, men che meno due italiane in una finale Slam, come poi successe con la presenza di Flavia Pennetta. Il successo fu pienamente legittimato, però, dal tennis e dalla tenuta fisica e mentale di Robertina Vinci. Che, dopo tante difficoltà per emergere, trovò il suo giorno da leoni e, dopo un primo set negativo, perso per 6-2, tirò fuori gli artigli e attaccò, spinse da fondocampo col suo dritto, irretì ne innervosì l’americana col suo rovescio in back-saponetta, si buttò all’attacco a più non posso, colpendo con la rapidità e l’efficienza di un commando dei Seal Men: 18 punti su 25 tentativi.
E servì benissimo, soprattutto con la seconda palla, nella quale Serena aveva appena affondato a suo piacimento nel confronto di Toronto del mese prima. Fu una partita epica, come il mitico Italia-Germania 4-3 dei Mondiali di calcio in Messico, un continuo palpitare, un continuo temere che quel perfetto giocattolo italiano mai così perfetto si rompesse sotto la furia agonistica sempre più disperata, rabbiosa e cieca di Serena. Ma non accadde, anzi.
“Non pensare che dall’altra parte c’è Serena. Mi sono ripetuta: ‘Corri e gioca’”.
Roberta Vinci aveva reagito dopo il primo set che le era franato addosso, perdendo 21 degli ultimi 29 punti: “Ho pensato solo a giocare i punti, mi sono concentrata sula palla, senza già pensare che di là del net c’era Serena. Mi sono ripetuta: “Corri e gioca”. Aveva ubriacato l’americana col suo gioco-champagne, rubandole il tempo, costringendola a giocare sempre fuori equilibrio e fuori posizione, facendole toccare una palla di più. aveva annullato con un dritto nell’angolo alla pericolosissima palla break sul 5-4 del secondo set, scatenando la stizzita reazione dell’americana, con tanto di racchetta divelta al suolo. Aveva rimontato lo 0-2 iniziale del terzo set. E, a riprova di come il fattore psicologico si fosse spostato tutto sulle spalle della favorita liberando anima, braccia e gambe della tarantina, Roberta, dopo l’ennesima prodezza sotto rete, stravolta dalla grandezza dell’impresa, aveva chiamato veementemente il pubblico ad applaudire anche lei, accompagnandosi chiaramente con le braccia, e sparando un vivace “Ca…”, in mondovisione.
Dopo di che, approfittato dei due doppi falli nel settimo game, aveva anche piazzato la fuga decisiva, moltiplicando la pressione sulla Williams. Sempre più stanca e confusa e goffa, sempre più incapace di pensare. Ed infine, aveva giocato il game di servizio perfetto per chiudere la contesa dopo due ore per 2-6 6-4 6-4. “Non pensavo di vincere ma è il miglior momento della mia vita. Mi dispiace per la gente americana, per Serena, per il suo Grande Slam, ma oggi è il mio giorno, mi spiace ragazzi”.
E così Serena, invece di entrare nella leggenda degli eroi-Slam, si è accodata fra i più grandi delusi all’ultima tappa dell’immortalità tennistica, insieme a Jack Crawford nel 1933, Lew Hoad nel 1956 e Martina Navratilova nel 1984. Poi ha vinto altri due Majors, ma qualcosa in quel magico venerdì 11 settembre 2015 si è irrimediabilmente spezzato nella proverbiale sicurezza della guerriera Williams. Prima, la Tyson del tennis aveva perso poche volte contro-pronostico, e le era successo contro fenomeni in ascesa come Maria Sharapova, o sulla terra, o nei primi turni dei tornei, o per via di infortuni o di problemi personali. Ma la ferita, tecnica, tattica e psicologica, che le ha aperto il fioretto di Robertina l’ha resa vulnerabile anche agli occhi delle avversarie. Allontanando clamorosamente l’aggancio ai 24 Slam-record di Margaret Court. Che pure è a un solo passo.
*Articolo ripreso da Supertennis.tv*