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Ciclismo

Alè, Tour: L’Italia schiera Nibali all’attacco, con alleati esperienza, passione e …tranquillità!

Da Marco Pastonesi 06/07/2018

Froome e lo squadrone Sky da battere, con tanti attesi protagonisti di tante nazioni diverse. Ma Vincenzo punta anche sulla cabala: “Anche 4 anni fa, quando ho vinto, c’erano i Mondiali di calcio”

Il primo, nel 2008, gli servì per capirci qualcosa: ventesimo. Il secondo, nel 2009, lo aiutò a prendere le misure: settimo. Il terzo, nel 2012, lo spinse a salire sul podio: terzo. Il quarto, nel 2014, gli regalò la possibilità di guardare il mondo dall’alto, dalla vetta, dal paradiso: primo. Da allora, al Tour de France, Vincenzo Nibali è andato sempre da protagonista, e anche da antagonista, da sfidante, e sempre da attaccante. Come stavolta: dorsale 51, capitano della Bahrein-Merida, ambasciatore del ciclismo italiano. Da domani a domenica 29 luglio, 3351 chilometri, da Noirmoutier-en-l’Ile ai Campi Elisi, prima le Alpi poi i Pirenei, ma prima ancora i muri e il pavé. Alé.
     A giudicare dalla lista dei partenti, Nibali è in fin troppo buona compagnia: c’è il britannico Chris Froome, nonostante la conclamata positività a un esame antidoping, al comando di una corazzata multinazionale (la Sky), una sorta di resto del mondo; c’è il colombiano Nairo Quintana, supportato dallo spagnolo Mikel Landa, che sarebbe capitano in qualsiasi altra formazione (Sky esclusa) e l’incredibile spagnolo Alejandro Valverde, che superata la soglia dei 38 anni, va addirittura più forte di quando fu sospeso (2010 e 2011) per pratiche chimiche (quest’anno 11 vittorie); c’è l’altro colombiano Rigoberto Uran, che è sempre lì; c’è il francese Romain Bardet, in ascesa costante; c’è l’olandese Tom Dumoulin, ormai tenacemente arrampicato ai vertici delle grandi corse a tappe; c’è il tasmaniano Richie Porte, che in giugno ha conquistato il Giro di Svizzera; e ci sono l’irlandese Dan Martin, il danese Jakob Fuglsang, il russo Ilnur Zakarin, l’inglese Adam Yates, gli olandesi Steven Kruijswijk e Bauke Mollema, e lo sloveno Primoz Roglic, per la prima volta promossi capitani unici o comunque finalmente liberi di fare e interpretare la propria corsa. Una concorrenza, per lo Squalo, bestiale. Alé.
   Nibali ha 33 anni e mezzo, di cui questo è il quattordicesimo da professionista, una sessantina di vittorie individuali più sei cronosquadre, non solo grandi giri (due Giri, un Tour e una Vuelta), ma anche grandi classiche (due Lombardia e una Sanremo, quella di quest’anno), e due infiniti sogni ritornati nel cassetto (Mondiale e Olimpiade, caduto mentre era al comando). Da come gli ballava in testa il cappellino (tipo baseball) durante la presentazione delle squadre, al Tour si presenta magro, tirato, asciutto, segno di una preparazione che ha lasciato chili a casa e nulla al caso. E il fuoco, dentro, non gli si è mai spento: un fuoco, che è – innanzitutto – passione, nato per natura, caratterizzato dal carattere, alimentato dalla fame non necessariamente della fama, ma dalla stima, dalla responsabilità e dalla famiglia, anzi, dalle famiglie. La prima, quella sua, siciliana, in cui è cresciuto; la seconda, quella toscana, che lo ha accolto quando da ragazzino ha scelto di fare strada, la sua strada, a forza di pedali; e la terza, quella che ha costruito, che sta costruendo, con Rachele, la moglie, e Emma Vittoria, la figlia. Alé.
    I corridori – dal primo all’ultimo, dalla maglia gialla alla lanterna rossa – si conoscono, si sentono, si ascoltano, capaci di farsi radiografie a sensazioni, ecografie a impressioni, test anche senza sforzo. Sono macchine di Formula 1, ma umane, sensibili, intelligenti. E sono gli unici a poter stilare una vera gerarchia dei valori alla partenza. Così Nibali sa di non avere più la stessa freschezza, o la stessa esplosività, o la stessa brillantezza di quando conquistò il Tour quattro anni fa. Ma sa anche che la corsa è avventura, esplorazione, scoperta, che l’esperienza, cioè la somma non solo degli errori ma anche di tutte le volte che, di tutte le volte in cui, di tutte le volte però se ma, ha il suo valore. E a volte fa la differenza. Nibali sa anche che il peso della corsa sarà su Froome e la Sky, sa che la cronosquadre lo penalizzerà, ma sa anche che questo Tour è un’occasione e un’opportunità, una sfida e una lotta, una pacifica guerra di gambe e testa. Alé.
    Nelle dichiarazioni prima del via Vincenzo, come nella sua indole, non ha tirato i freni: “Faccio gli scongiuri, mi piacerebbe far gioire gli italiani. Al tempo stesso sono realista e non volo troppo con la fantasia. Il podio, magari con una vittoria prestigiosa, per me vorrebbe dire aver centrato i miei obiettivi. Ma mi conoscete, sono uno ambizioso. E anche nel 2014, quando ho vinto il Tour, c’erano i Mondiali”, “Ho sempre pensato di dover affrontare Froome e lo affronterò come tutti gli altri, da Porte a Uran, da Bardet a Dumoulin. Non ha più corso dopo il Giro d’Italia, ha recuperato le energie e sono certo che sarà al massimo”, “Non sono mai andato forte al Delfinato, nemmeno negli anni dei miei Tour migliori. In altura abbiamo lavorato per affinare la brillantezza, il cambio di ritmo, i fuorigiri. Abbiamo lavorato molto con il dietro-moto. Paolo Slongo (il suo preparatore, n.d.r.) mi dava il ritmo in scooter, è un sistema che ha sempre funzionato bene”. E se non dovesse andare come nei desideri? “C’è il Mondiale. E ci sarà l’Olimpiade. Fino al 2020 mi vedrete in bici”. Alé.

 

Marco Pastonesi
(foto di archivio tratta dal web)
Tags: 2019, analisi, froome, Nibali…, tour de france

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Nota sull’autore: Marco Pastonesi

Genovese, ha seguito 15 Giri d'Italia, 10 Tour de France, 4 Coppe del mondo e 18 Sei Nazioni di rugby. Ha scritto, fra l’altro: Pantani era un dio, L'Uragano nero, Gli angeli di Coppi e I diavoli di Bartali, Ovalia - il dizionario erotico del rugby.

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