Le volate sono una collezione di trasgressioni che, sommate, garantirebbero il ritiro della patente a vita. Le volate sono un film western concentrato in duecento metri e dieci secondi. Le volate sono una prova dell’esistenza dei diavoli e una prova della resistenza di dio, almeno di quello del ciclismo. Le volate sono adrenalina e acido lattico, pelle d’oca e coraggio da leoni, freddezza bollente da killer e follia allo stato puro (antidoping permettendo). Le volate hanno il fuoco nel cuore e la morte negli occhi. E certe volate non si esauriscono mai. Come quella di ieri, quarta tappa del Tour de France, arrivo a Vittel, in omaggio a uno dei maggiori sponsor (acqua minerale) della Grande Boucle. Ma ce ne vorrà, di acqua e di tempo, e forse mai basterà, per spegnere critiche e polemiche.
L’articolo 12.1.040 autorizza la giuria a rispedire a casa un corridore autore di una violazione molto grave, e non solo in volata: deviare improvvisamente la traiettoria, togliere le mani dal manubrio, rifilare gomitate, ginocchiate o codate. In base a questo articolo, ieri una decina di corridori avrebbe avuto il diritto di tornarsene a casa a spese proprie. Invece il privilegio è stato regalato soltanto a Peter Sagan, slovacco, due volte campione del mondo nelle ultime due edizioni, e abbonamento alla maglia verde (leader della classifica a punti) qui al Tour, a occhio il corridore più amato dal popolo del ciclismo perché il più combattivo, il più generoso, il più allegro. Vista e rivista questa volata caotica, anarchica, selvaggia, ogni volta si finisce per scoprire una nuova irregolarità. Il rettilineo è lungo un chilometro e mezzo. Il gruppo si allunga, si assottiglia, si spezza, ondeggia. Sagan si ritrova sul corridoio destro, forse chiuso, ma forse ancora con la possibilità di rimontare. Alla sua destra – uno spazio ridicolo, extraparlamentare, anche extra-costituzionale – si inserisce Mark Cavendish, che non figura fra i chierichetti del gruppo (per dirne una sola: Olimpiade di Rio de Janeiro, nel 2016, omnium, “Cave” scaraventa un sudcoreano addosso a Elia Viviani, che frana e rischia così di perdere la corsa, “Cave” salirà comunque sul podio, medaglia di bronzo). Cavendish cerca di farsi largo, appoggia testa e casco a Sagan, che lo respinge con una gomitata, Cavendish cade sulle transenne e si frattura la scapola, Sagan viene prima retrocesso e penalizzato, poi squalificato. A nulla vale il ricorso della sua squadra.
Giustizia, o ingiustizia, è fatta? La spaccatura è immediata. Chi sostiene che è stata presa una decisione dolorosa, ma chiara, netta, secca, a prescindere dal peso dello squalificato. E invece chi sospetta che si sia difeso una squadra-sponsor del Tour (quella di Cavendish), o aiutato i corridori francesi (la vittoria è andata al campione di Francia, Arnaud Démare, protagonista nella circostanza di alcune acrobazie ai limiti del regolamento), o voluto dare un segnale istituzionale di forza e “grandeur” (più o meno come le scuse richieste al belga Jan Bakelants per presunte dichiarazioni sessiste). Come dire: siamo più forti e potenti perfino di Sagan. Si è comunque visto di molto peggio, e impunito. E Sagan non è stato certo l’unico colpevole di irregolarità.
I velocisti sono carogne, banditi, corsari. L’ultimo chilometro è contrassegnato da un triangolo rosso, e lì i velocisti si trasformano in tori, e i viali in arene, e le volate in corride. Non si toccano più i freni, neppure quelli inibitori, e si liberano voglie e istinti che sono aggressività al confine con la violenza, potenza al limite della prepotenza. Il ciclismo diventa discesa libera, boxe, roulette russa. Stavolta la pistola aveva due proiettili. Consecutivi. Il primo ha deragliato Cavendish, il secondo ha disarcionato Sagan.
Ma lo spettacolo va avanti. Il Tour – come si auto-giustificano non solo i francesi, ma un po’ tutti, diventandone alleati o complici – è il Tour.
Marco Pastonesi