Nel 1987 raggiunge un enorme successo in Italia l’album Freedom No Compromise, terzo lavoro da solista di Little Steven o Steven Van Zandt. Il brano di punta di questo album è Bitter Fruit, un pezzo profondamente politico e che denuncia senza mezzi termini la situazione delle “Banana Republics”, gli stati mesoamericani assoggettati allo strapotere politico ed economico della United Fruit Company e, di riflesso, degli USA. La melodia verrà poi utilizzata anche da Antonello Venditti per un altro brano profondamente impegnato, Prendilo tu questo frutto amaro, ma i temi saranno radicalmente differenti.
Anche in Centro America, tuttavia, si tratta di “una questione politica, una grande presa per il culo”, come cantava il cantautore romano: una storia assurda, ingarbugliata che trova come proprio cantore un polacco che, macchina da scrivere in valigia, si trova lì per un’agenzia di Varsavia. La Storia che si materializza sotto i suoi occhi e i frutti più amari dell’umanità che germogliano uno ad uno; le radici, inquinate all’inverosimile da ogni sorta di odio etnico, violenza e disinformazione che sembrano difficili da recidere.
Il 13 dicembre 1960, con la benedizione di Washington e del neoeletto JFK, è nato il Central American Common Market (CACM), il Mercato Comune del Centro America, di cui fanno parte, Honduras, El Salvador, Guatemala e Nicaragua; due anni più tardi si aggiungerà anche il Costarica. Un’intera regione adibita a monocoltura: cinque paesi e una produzione di tonnellate su tonnellate l’anno di banane da esportare poi in tutto il mondo con costi di manodopera irrisori. Per gli USA, così come per gli altri paesi, è, infatti, molto più conveniente importarle da lì che allestire piantagioni sul proprio territorio nazionale. Un giro d’affari nelle mani delle potenti multinazionali a stelle strisce, una in particolare l’abbiamo già nominata, si tratta della United Fruit Company, oltre che di poche famiglie di latifondisti locali in grado di fare la voce del padrone. Un giochetto che in fondo conviene a tutti: al governo statunitense, alle compagnie produttrici ma anche agli stati membri del Mercato comune, che tentano di uscire dalla secolare condizione di arretratezza agricola nella quale versano.
I benefici, però, non sono gli stessi per tutti. Gli investitori prediligono quelle zone dove già è presente una parvenza di sviluppo tecnologico, ed El Salvador in questo si rivela il paese più avanzato, l’Honduras, invece, quello più arretrato. El Salvador, indipendente dal 1838, è un paese minuscolo, soprattutto se paragonato agli ingombranti vicini della regione. E poi non ha uno sbocco sull’Atlantico. Non va meglio sull’altra costa, quella Pacifica, dove El Salvador deve fare i conti con l’Honduras, che si affaccia sul golfo di Fonseca, un crocevia strategico nel commercio tra Nord e Sud America. El Salvador si sente mancare l’aria. Pur in contesto di relativa povertà, i salvadoregni crescono dal punto di vista economico, registrano un calo delle morti in culla e un parallelo aumento della natalità. Nel giro di poco, El Salvador arriva a contare 3,7 milioni di abitanti contro i 2,6 milioni del vicino stato honduregno; che, però, ha una superficie sei volte più estesa del El Salvador.
Superficie ridotta e crescita demografica esponenziale significa aumento del tasso di disoccupazione. La catastrofe è alle porte. El Salvador chiede, cappello in mano, aiuto ai vicini di Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras, che a loro volta non se la passano benissimo ma almeno hanno chilometri quadrati di terra incolta. E, così, nel 1967 si arriva alla firma della Convenzione bilaterale sull’immigrazione. Si crea una corsia preferenziale per tutti i cittadini salvadoregni che decidono di far fagotto e trasferirsi in Honduras sperando di trovare possibilità di residenza e un lavoro.
Sono 300.000 le persone che prendono la via di Tegucigalpa varcando la frontiera. Il lavoro ora, però, viene così a mancare per chi in Honduras ci è nato e cresciuto. La situazione si ribalta completamente. I locali cominciano a lamentarsi per le vie trafficate di Tegucigalpa di condizioni di vita diventate insostenibili e le proteste arrivano alle orecchie di Oswaldo Lopez Arellano, il dittatore honduregno unto in fronte dagli USA e appoggiato dai latifondisti. Nella primavera ‘69, attraverso l’Istituto Nazionale Agrario, Arellano emana un provvedimento che decreta la confisca delle terre e l’espulsione dal paese di chiunque non sia honduregno. Per i 300.000 in questione è la fine del sogno: si torna a casa. Ma, a dire la verità, si potrà chiamare casa un posto dove non si ha un lavoro, non si ha un pezzo di terra da cui cavar fuori qualcosa da mangiare, non si ha un tetto sotto al quale dormire?
E in più in quel 1969, ad esasperare ancora di più il quadro ci si mette il calcio.
“Lo speaker della radio honduregna annunciò che da Cape Kennedy era partito il razzo Apollo 11. Tre astronauti, Armstrong, Collins e Aldrin, stavano volando verso la Luna. L’uomo si avvicinava alle stelle, scopriva nuovi mondi, penetrava gli spazi infiniti della galassia. Da tutti gli angoli della Terra affluivano congratulazioni a Houston. L’umanità si rallegrava per quel trionfo della ragione e del pensiero esatto.”
Pensieri e parole uscite dalla macchina da scrivere di Ryszard Kapuściński, uno dei più grandi reporter di guerra che l’umanità abbia mai conosciuto. Sono i momenti che segnano l’inizio di un’avventura che culminerà con il primo storico allunaggio: una missione che avrà il suo apice il 20 luglio 1969. Neil Armstrong, il primo uomo a calpestare il suolo lunare, che pronuncia una frase che miliardi di persone hanno imparato a memoria: “One small step for a man, one giant leap for mankind”. Quella notte, in Italia, i bambini rimangono eccezionalmente svegli per seguire l’evento e mamma e papà dibattono se chi tra Tito Stagno o Ruggero Orlando, uno da Roma e l’altro da Houston, abbia ragione: “Ha toccato”, “No che non ha toccato”.
Kapuściński nelle sue corrispondenze non ha tempo né voglia di approfondire la questione. Ne scrive di passaggio, quasi svogliatamente e per dovere di cronaca. Là dove è lui la ragione e il pensiero esatto sembrano non essere di casa. Dentro di sé sente quasi di essere un alieno su un pianeta lontano in grado di captare messaggi dalla terra. Lì, in Honduras, c’è da raccontare una guerra e quello che ne segue. Gli è già capitato altre volte, ma questo è un conflitto diverso, innanzitutto perché è cominciato e terminato nel giro di quattro giorni: dal 14 al 18 luglio. Gli ha dato anche un nome che farà il giro del mondo, una sorta di copyright: la prima guerra del football. Sì, perché stavolta un pallone che rotola su un rettangolo verde funge da fattore scatenante di un conflitto che in un centinaio di ore lascerà sul terreno 6000 morti.
Honduras contro El Salvador, le partite da due che dovevano essere sono diventate tre perché si è reso necessario uno spareggio. In palio, un posto per il Mondiale dell’anno dopo. Il torneo si giocherà in Messico: la squadra di casa è qualificata di diritto e così si libera una casella per un’altra rappresentativa del Centro e Nord America. Siamo arrivati alle semifinali, Stati Uniti-Haiti e, appunto, Honduras-El Salvador. La formula del torneo di qualificazione mondiale prevede una doppia partita, di andata e ritorno. Domenica 8 giugno si gioca a Tegucigalpa, una settimana dopo a San Salvador. In che clima, è facilmente immaginabile: il pallone diventa strumento di rivalsa per tutto quello che è accaduto nelle settimane precedenti. Perfino il più distratto degli osservatori si renderebbe conto che nessuna delle due nazionali nutre la benché minima speranza di vincere il Mondiale o anche solo di fare una figura decente. Prima di avere la certezza di arrivare in Messico, oltretutto, rimarrebbe un altro scoglio da superare: la finale contro la vincente di Haiti-Stati Uniti. Ma sono ragionamenti che a nessuno viene in mente di fare. In questo momento conta una sola cosa, battere il nemico. Magari, perché no, umiliarlo.
La partita di andata va in scena domenica 8 giugno all’Estadio Nacional di Tegucigalpa. L’Honduras è favorito, per arrivare alle semifinali ha eliminato il Costarica, la nazionale forse di maggior talento della regione.
«Loro si stavano preparando da due anni alle qualificazioni mondiali, noi da un mese e mezzo»
Questo è il racconto è di Mauricio “Pipo” Rodríguez, attaccante di El Salvador. Lo intervista, tanti anni dopo, il giornalista tedesco Klaus Ehrenfeld, uno dei pochi a essersi preso la briga di togliere lo strato di polvere accumulato su quei giorni drammatici. L’Honduras è favorito anche perché può contare su un centravanti, José Enrique Cardona, che da cinque anni gioca e segna nell’Atletico Madrid: Cardona in Spagna ha vinto un campionato e una coppa nazionale togliendosi lo sfizio di segnare il gol decisivo nella finale contro la Real Zaragoza. Una sorta di extraterrestre, per gli avversari ma anche per i suoi compagni.
La nazionale di El Salvador raggiunge il proprio hotel la sera della vigilia. Nessuno si illude di trovare un comitato di accoglienza, ma la realtà va ben oltre l’immaginazione. Comincia una notte da incubo, fatta di lancio di petardi, vetri in frantumi, cori offensivi e caroselli di auto sotto le finestre con relativo concerto di clacson. Non c’è un attimo di pace. Se l’obiettivo doveva essere quello di azzerare le ore di sonno dei giocatori, si può tranquillamente parlare di missione compiuta. «Ci davano dei ladri» è il racconto di Rodríguez «e noi all’inizio non capivamo a cosa e a chi si riferissero. Poi piano piano ci siamo resi conto che si trattava di un odio che andava al di là del calcio.» Più o meno nello stesso momento il paese viene sommerso di volantini nei quali i salvadoregni sono etichettati come ladri, ubriaconi e truffatori. Con tanto di minaccia: «Andatevene dall’Honduras, altrimenti ve ne pentirete». Riferimento nemmeno troppo velato ai contadini e alle terre prima assegnate e poi confiscate dal governo di Tegucigalpa.
Ci sarebbe da parlare della partita: brutta, sporca ma neanche tanto cattiva. Nessuna offesa personale da una parte e dall’altra, nessun colpo proibito. I protagonisti fanno quello che possono, i 18.000 sulle tribune assistono a una partita modesta con un solo gol, di marca honduregna, di cui è autore al penultimo minuto il difensore Leonard Welch. Ma 1-0 0 o 4-0 non fa differenza, così recita il regolamento delle qualificazioni. Se El Salvador si aggiudicherà la partita di ritorno ci sarà bisogno di uno spareggio in campo neutro.
Perdere quando l’arbitro sta per fischiare la fine non è mai bello. La reazione che sto per raccontarvi, tuttavia, va al di là di ogni logica. Amelia Bolaños, ragazza di San Salvador, diciottenne, è impietrita davanti al televisore. Ad un certo punto, scatta verso la stanza del padre, estrae da un cassetto una pistola e si toglie la vita. Questo, almeno, racconterà a distanza di anni Ryszard Kapuściński, che poi non lesina particolari, a cominciare dal commento apparso il giorno dopo sul quotidiano El Nacional: «Una giovane ragazza non sopporta di vedere la sua patria messa in ginocchio». Ancora Kapuściński: «Ai funerali di Amelia Bolaños, trasmessi per televisione, aveva partecipato l’intera capitale. La bara, coperta dalla bandiera nazionale, era seguita dal presidente della Repubblica e dai ministri. Dietro ai membri del governo c’erano gli undici giocatori di El Salvador che quel mattino, fischiati derisi e coperti di sputi all’aeroporto di Tegucigalpa, erano rientrati in patria con un aereo speciale».
Fra la partita di andata e quella di ritorno passa una settimana. Sono giorni nei quali i rapporti tra Honduras ed El Salvador si fanno sempre più tesi. La cacciata dei contadini salvadoregni subisce un’improvvisa accelerazione. Entrano in scena gli uomini di “Mancha brava”, un’organizzazione paramilitare agli ordini del dittatore López Arellano. Il commando designato di solito si “occupa” di studenti o insegnanti in sciopero e più in generale di soffocare qualsiasi manifestazione contro il regime: con quali metodi, è facile immaginare. Stavolta l’attenzione si sposta sui contadini espropriati che si rifiutano di lasciare le loro terre. I giornali, quelli di El Salvador ovviamente, riportano di famiglie massacrate di botte, di donne violentate e atrocità varie.
La nazionale dell’Honduras decide di partire alla volta di San Salvador due giorni prima della partita. Tanto per dare un tono di solennità all’evento, i jet dell’aviazione militare scortano la squadra fin dove possibile, quindi fino al termine dello spazio aereo honduregno. L’accoglienza predisposta all’ingresso dell’hotel fa impallidire quella di una settimana prima a parti invertite. Contro le finestre dei giocatori vengono lanciati topi morti, uova marce e sacchetti pieni di escrementi. Oltre ovviamente ai soliti razzi, che soltanto per puro caso non colpiscono i giocatori. L’accompagnatore invece sì: è un ragazzo del posto, morirà per le ferite riportate in una delle esplosioni. Marco Antonio Mendoza, centrocampista e futuro segretario della Federcalcio di Tegucigalpa, racconterà a distanza di quarant’anni un particolare che lascia basiti: «Mentre contro le nostre stanze volava di tutto, qualcuno della polizia munito di megafono urlava a quegli scalmanati parole di questo tenore: fate quello che volete, ma non danneggiate l’albergo. Come dire che se fosse dipeso dalle forze dell’ordine avrebbero potuto ucciderci, l’importante era lasciare intatte porte e finestre.» A un certo punto, saranno le tre di notte, in mancanza di alternative i dirigenti della federazione decidono di far salire la squadra sul tetto. Il rumore è fortissimo e ai giocatori non resta altro che infilarsi del cotone nelle orecchie. Impossibile dormire e allora per aspettare l’alba si gioca a carte.
Il problema è che alla partita manca ancora una notte, quella fra sabato 14 e domenica 15 giugno. Cambiare albergo non avrebbe senso, così alla fine si opta per una soluzione diversa: i giocatori vengono divisi in gruppi da tre e alloggiati presso famiglie honduregne che vivono a San Salvador. Va decisamente peggio ai 5000 tifosi che sono partiti da Tegucigalpa per sostenere la loro nazionale. Sono un boccone troppo ghiotto per gente accecata dall’odio. I pullman diventano il bersaglio di un sistematico tiro a segno fatto di sassi e bombe molotov. Per molti il viaggio finisce lì ma almeno fanno ritorno in patria con le loro gambe, i meno fortunati invece vanno a intasare le corsie degli ospedali. Il bilancio parla addirittura di due morti.
La partita? I giocatori dell’Honduras per ovvi motivi ci arrivano senza il canonico allenamento della vigilia e con l’unico obiettivo di portare a casa la pelle. Oltretutto, forti della vittoria di una settimana prima, sanno che nella peggiore delle ipotesi avranno una seconda possibilità. La federazione di Tegucigalpa, per la verità, ha chiesto alla FIFA di annullare la partita e di tenere per buono il risultato dell’andata, ma da Zurigo hanno risposto picche. L’Honduras raggiunge lo stadio Flor Blanca scortato da carri armati della prima divisione corazzata dell’esercito. Lungo il tragitto, riferisce Ryszard Kapuściński, migliaia di persone sventolano la foto dell’eroina nazionale Amelia Bolaños. Non resta che giocare. Prima, però, gli inni nazionali. Quello dell’Honduras viene subissato di fischi, ma questo è niente: la bandiera del paese ospite viene fatta a brandelli e sostituita da uno straccio lacero e sporco issato alla meno peggio sul pennone. Finisce nell’unico modo possibile, la vittoria cioè di El Salvador; 3-0, tutti i gol realizzati nel primo tempo. “Ragazzi, meno male che abbiamo perso”. Le parole dell’allenatore Mario Griffin a fine partita fotografano nel migliore dei modi lo stato d’animo degli sconfitti. Chissà cosa sarebbe successo se il risultato fosse stato un altro. Fuori dallo stadio aspettano i carri armati. I giocatori salgono a bordo e raggiungono l’aeroporto ancora in tenuta da gioco, con indosso maglie sudate e scarpe intrise di terra. Si torna a casa, ed è l’unica cosa che conta.
Serve una terza partita, ovviamente in campo neutro. Non ci vuole molto a fissare data e luogo: si giocherà il 27 giugno allo stadio Azteca di Città del Messico. È l’impianto da 100.000 spettatori che un anno dopo ospiterà la finale del Mondiale, e prima ancora la semifinale, che Italia e Germania Ovest trasformeranno nella «partita del secolo», con tanto di targa commemorativa all’esterno dell’impianto. 100 000 spettatori per El Salvador-Honduras? Non scherziamo, basterebbe uno stadio da 30.000.
Se la sera della partita si arriva a 35 000 è solo perché sugli spalti prendono posto 5000 fra poliziotti e militari in assetto da guerra. La tensione è altissima, almeno sulle tribune. Due giorni prima El Salvador ha accusato l’Honduras di genocidio davanti alla Commissione per i diritti umani dell’ONU. È solo il primo passo. Il secondo, la rottura delle relazioni diplomatiche, segue a distanza di poche ore. Lo scoppio della guerra è solo questione di tempo. Quale delle due parti sparerà il primo colpo? Nell’incertezza del futuro, tiene banco il calcio: c’è uno spareggio da giocare. El Salvador passa per due volte in vantaggio e per due volte viene raggiunto, la seconda con la complicità del portiere Gualberto Fernández che inciampa goffamente sul pallone, finisce addosso a un difensore e consente all’attaccante honduregno Gomez di segnare nella porta sguarnita; le comiche. Il povero Fernández, che pare soffra di miopia, viene sostituito seduta stante. Un po’ come le prime due partite, anche questa non risente più di tanto delle tensioni extracalcistiche. Si gioca senza pensare a cosa sta accadendo e cosa potrebbe accadere nei due paesi.
Il giorno dopo il quotidiano di Città del Messico El Heraldo scriverà: «I giocatori hanno messo da parte i problemi politici e dato vita a un confronto all’insegna della sportività». Per designare la nazionale vincitrice servono i tempi supplementari: se non ci saranno altri gol, occorrerà rigiocare. Eventualità, questa, scongiurata al minuto 101, quando il «Pipo» Rodríguez lascia sul posto il proprio marcatore Azulejo Bulnes e vanifica l’uscita del portiere Jaime Varela. È il gol che consegna a El Salvador il lasciapassare per la finale. Ma non solo.
La scena che accompagna il fischio di chiusura dell’arbitro messicano Aguilar è simile a quella di tante partite da dentro o fuori. La gioia sfrenata dei vincitori, le lacrime degli sconfitti. Stavolta però c’è qualcosa di diverso. I giocatori sapevano. Non era solo calcio. Bastava sfogliare i giornali, o ascoltare i racconti di familiari e amici. La frontiera tra Salvador e Honduras si stava popolando di militari pronti a entrare in azione. Mancava solo il via libera degli alti comandi e sarebbe stata guerra.
Il conflitto scoppierà, anche se non subito. I giocatori salvadoregni faranno in tempo a gustarsi i festeggiamenti per il passaggio del turno, gli sconfitti avranno il loro daffare a metabolizzare la delusione sportiva. Ma è solo una questione di giorni. La scintilla scocca all’alba del 14 luglio.
El Poy è un puntino microscopico sulla carta geografica, un luogo di frontiera. È lì che le forze armate salvadoregne fanno la prima mossa e attraversano il confine. La chiamano guerra de legitima defensa, «guerra di legittima difesa», con riferimento alle violenze subite dai contadini espropriati dei loro terreni e costretti a fuggire. Le diplomazie non dispongono di strumenti adeguati ad arginare il conflitto in volo i primi aerei militari, destinazione Tegucigalpa. Sulla capitale vengono sganciate bombe che distruggono edifici e annientano persone e animali. Come ha raccontato Kapuściński, unico reporter occidentale presente nella capitale dell’Honduras: «All’imbrunire un aereo sorvolò la città e sganciò una bomba. Il boato si udì dappertutto. La città fu presa dal panico. La gente si rifugiava nei portoni, i commercianti chiudevano bottega, le auto venivano abbandonate in mezzo alle strade. A un certo punto le luci si spensero e tutta Tegucigalpa sprofondò nelle tenebre”.
Intanto si muove anche la fanteria: è il segnale che scatena l’offensiva di terra. L’esercito salvadoregno avanza, guadagna chilometri di territorio. Sembra già una svolta decisiva, tenuto conto che le truppe di El Salvador sono sei volte superiori a quelle nemiche. La risposta dell’Honduras si materializza il giorno dopo ed è affidata alle forze aeree, là dove i rapporti di forza si rovesciano. L’attacco distrugge un quinto delle riserve di combustibile nemiche. Ne seguiranno altre, di incursioni, nei cieli salvadoregni. Quella che doveva essere una formalità si rivela invece una pratica molto più complicata. Un rompicapo irrisolvibile. La controffensiva di Tegucigalpa costringe le forze nemiche ad arretrare. Alle 22 del 18 luglio l’Osa, l’Organizzazione degli stati americani, impone il cessate il fuoco. L’Honduras accetta, El Salvador tergiversa nell’attesa che gli Stati Uniti mettano a disposizione gli aerei necessari a riequilibrare i rapporti di forza con il nemico. I velivoli poi arriveranno ma non servirà a nulla.
Sui libri di storia la fine del conflitto viene collocata la sera del 18 luglio, anche se gli scontri, sporadici, andranno avanti fino al 5 agosto quando le forze salvadoregne si ritirano definitivamente entro i propri confini. Cento ore di conflitto che lasceranno sul terreno 6000 morti, nella stragrande maggioranza civili innocenti o ragazzi in divisa mandati allo sbaraglio. Nel tempo emergeranno ulteriori particolari scioccanti: dal napalm alle esecuzioni di massa.
Tutto per una partita. O no? Mauricio “Pipo” Rodríguez, l’autore della rete decisiva nello spareggio dell’Azteca, ha uno zio che di professione fa l’ambasciatore. La sua sede diplomatica è Madrid. A conflitto terminato, riempie una busta di articoli di giornale e la spedisce al nipote. Così Rodríguez viene a sapere che per la stampa internazionale il suo gol è stato la causa scatenante della guerra. Ce n’è abbastanza per non dormire la notte, sopraffatto dai rimorsi. Ma è andata davvero così señor Rodríguez? “Neanche per sogno. La guerra sarebbe scoppiata comunque, in un modo o nell’altro. Nulla e nessuno avrebbe potuto cambiare il corso della storia.” A posteriori, sapendo quello che è accaduto dopo, avrebbe comunque calciato in rete quel pallone? “Certo. Rifarei tutto, dal primo all’ultimo minuto. Ero un attaccante e fare gol era il mio mestiere.”
Così il «Pipo» Rodríguez ha risposto alle domande del giornalista Klaus Ehrenfeld. Il quale, non contento di aver rintracciato a distanza di quarant’anni (era il 2009) uno dei protagonisti di quella partita, è andato oltre. Ha provato a indagare sulla figura di Amelia Bolaños, e come lui hanno fatto altri reporter: gente che ha trascorso nel paese settimane, in alcuni casi mesi, nel tentativo di saperne di più su quei drammatici giorni e in particolare sul conto della ragazza diciottenne suicidatasi dopo la prima delle tre partite di qualificazione. Qualcuno addirittura, sulla scia di Kapuściński l’aveva descritta come la figlia di un generale dell’esercito salvadoregno.
Né Ehrenfeld né gli altri hanno trovato traccia di una Amelia Bolaños morta la sera dell’8 giugno 1969. Nessun caso di suicidio riportato dai giornali, nessun funerale di Stato alla presenza di rappresentanti del governo e della nazionale di calcio appena tornata da Tagucigalpa. Nulla di nulla. Possibile che il mitico reporter di guerra polacco si sia inventato tutto? Domanda a cui è impossibile dare una risposta, anche perché Ryszard Kapuściński è morto nel 2007. Non risulta che sia più tornato sull’argomento, per cui fa testo quanto ha scritto nel suo “La prima guerra del football”, libro dato alle stampe nel 1978 e contenente il racconto di quei giorni vissuti in Honduras. Ci sta, magari, che la storia gli sia stata riferita da altri e che l’abbia riportata senza preoccuparsi di approfondire. O che magari l’abbia arricchita di particolari figli della fantasia più che del racconto cronachistico. Ci sta tutto. Ma in fondo cambia poco, la grandezza del giornalista rimane, così come rimane l’asurdità di una guerra durata un centinaio di ore e costata la vita a 6000 persone.
Al Mondiale del Messico, poi, El Salvador è andato. Ha giocato tre partite e le ha perse tutte: contro la nazionale padrona di casa, il Belgio e l’Unione Sovietica. Ha subito dieci gol e non ne ha segnato nemmeno uno. Lo stadio teatro di tutti e tre gli incontri è stato sempre lo stesso: l’Azteca. Oggi, chi passa di lì non può non imbattersi nella targa ricordo dedicata a Italia-Germania 4-3. El partido del siglo, “la partita del secolo”. Il gol di Schnellinger al novantesimo e oltre, quei folli tempi supplementari chiusi dal delizioso piatto destro di Rivera che manda il portiere tedesco Maier da una parte e la palla dall’altra. Ecco, magari un posticino lo meriterebbe un’altra targa, dedicata a un’altra partita. Basterebbero poche parole: “27 giugno 1969, El Salvador-Honduras 3-2”. Che sia stata o meno la causa scatenante di una guerra, conta relativamente. Almeno sarebbe un omaggio postumo a tutte quelle persone morte per nulla.
Perché l’unica guerra che va fatta su questo pianeta è quella all’oblio.