Dopo le tre vittorie consecutive di Sofia Goggia in Coppa del Mondo in Canada, la magia della squadra femminile azzurra continua anche in Europa con il trionfo di Federica Brignone nel secondo superG di St. Moritz. Un successo cercato e voluto, che la valdostana di origine milanese ha costruito con classe e tenacia. Non era una gara facile, con folate di vento assassine che potevano farti volare via dalla traiettoria con curve secche e ravvicinate che non permettevano una grandissima velocità, ma non ti lasciavano spazi di recupero. E poi le porte cieche, quelle dopo un dosso che non vedi al momento di impostare la traiettoria.
Come si fa? Si memorizzano in ricognizione. Ma non è facile su una pista di picchiate e pianerottoli, con pochissimi punti di riferimento. Ti pare di essere in un punto ed invece sei in un altro. Tante hanno sbagliato strada e si sono trovare fuori. Anche Sofia Goggia, seconda il giorno prima nella tormenta del primo superG in Engadina, si è giocata la quarta vittoria stagionale e la quindicesima in carriera sbagliando la valutazione di un passaggio cieco.
Diciassette vittorie sono tante, significa davvero entrare nella storia dello sci e per noi italiani ha lo strano effetto di veder superare un mito come Deborah Compagnoni che ha chiuso la carriera a quota 16. Brava Federica, ci sono voluti 23 anni per superare Deborah. Avrebbe potuto farlo prima di lei Karen Putzer, ma l’altoatesina è stata frenata dagli infortuni all’anca e da alcune scelte sbagliate non tutte sue.
La Brignone ha centrato questo obiettivo sulla soglia dei trent’anni, in piena maturità fisica e agonistica. Sinceramente l’aspettavamo prima a questo traguardo, perché già ventenne dimostrava una gran classe, ma troppe volte è parsa più farsi guidare dall’istinto che dal cervello. Nel 2011 a Garmisch (Ger) conquistava l’argento mondiale del gigante. Pareva la prima pietra di una formidabile ascesa. Invece per qualche stagione la macchina si è inceppata, a volte inspiegabilmente.
In cosa la Brignone somiglia a Deborah? Sicuramente nella sensibilità dei piedi. Piedi che, pur imprigionati nello scarpone, sentono il terreno, lo assecondano, le promettono linee e pieghe che ad altre sono vietate. Una qualità straordinaria per uno sciatore, ma di cui diverse volte si è fidata troppo finendo per sbagliare. A St. Moritz Federica ha dimostrato di aver trovato il limite e, se lo ha memorizzato, questo passo sarà solo l’inizio di un esaltante cammino. E’ vincente in due specialità, gigante e superG, competitiva in certe discese non troppo veloci, ma purtroppo per inseguire ancora la Coppa del Mondo generale le mancano quelle combinate (praticamente abolite) che in passato sono state la sua riserva di caccia preferita.
E’ quasi impossibile però dire se questa Brignone è più forte della Compagnoni. Le loro carriera non sono confrontabili. Perché, mentre Fede è un’atleta fisicamente integra che può gareggiare in tutte le specialità, Deborah ha visto condizionato il suo cammino dai troppi infortuni che ha patito già in giovane età. La Compagnoni era nata come una più che promettente discesista, ma i primi cedimenti delle ginocchia (oltre ad un blocco intestinale con relativo intervento d’urgenza) le hanno vietato la specialità più veloce. Il mondo l’ha conosciuta quando nel 1992 vinse a Meribel il superG olimpico davanti a Carole Merle. Ma dovette rinunciare anche al superG non potendosi allenare in velocità. Le rimanevano gigante e slalom (che odiava per l’impatto continuo con i pali), così la sua carriera leggendaria l’ha costruita soprattutto in gigante.
I suoi problemi erano la disperazione di chi la allenava. Tino Pietrogiovanna doveva, durante la preparazione, dosare il numero di pali con il bilancino. Al massimo tre, quattro passaggi sul tracciato di allenamento, uno in più e le ginocchia si gonfiavano. Il suo preparatore atletico Alessandro Manzoni, un giorno quasi al massimo dello sconforto si lasciò scappare: “Devo allenare un’atleta con non si può allenare”. Ma Deborah compensava con qualità agonistiche straordinarie con cui ottimizzava tutto. Quando doveva vincere vinceva. Non sono uno scherzo tre ori olimpici e altrettanti mondiali per un’atleta che doveva centellinare ogni respiro. Quanto avrebbe potuto vincere se fosse stata fisicamente integra? Cinquanta, sessanta gare di Coppa del Mondo?
Ma c’è una vittoria che conta più delle altre: La Compagnoni, dopo Sara Simeoni, è stata la campionessa che ha dato dignità allo sport femminile, portandolo allo stesso livello di interesse di quello maschile su stampa e televisione, costringendo anche gli uomini a rimanere incollati davanti al video per vedere l’esibizione di una donna. Prima di lei non succedeva. Anche la Brignone, la Goggia e la Bassino per questo devono dirle grazie.