Un goleador fantastico che in Italia ha segnato un’epoca. E non tanto per il numero dei suoi gol, quanto per la bellezza delle sue reti e la passione con cui le celebrava. Alla vigilia del big match della 16esima giornata di Serie A, Rubén Sosa ha concesso un’intervista esclusiva a Diretta News (Diretta.it), dimostrando di essere ancora oggi un campione di allegria e simpatia.
Che fine ha fatto Rubén Sosa?
“Che fine ha fatto? Si gode la vita. Alegría, alegría“.
Si sta divertendo, insomma.
“Molto (ride, ndr). Scherzi a parte, sono ambasciatore del Nacional e ho una scuola calcio ad Atlantida che si chiama proprio ‘Alegría, Alegría’. Siamo a 30 chilometri da Montevideo. Insegniamo calcio a 80 bambini”.
‘Alegría, alegría’, un po’ come il suo calcio, sempre stato all’insegna dell’allegria.
“Sì, è vero. Ho fatto tutto con allegria. Il calcio non è, come oggi dicono tutti, un lavoro. Assolutamente no, i calciatori hanno un dono, ma lavorare è alzarsi alle sei di mattina e tornare a casa a notte fonda. Noi ci allenavamo un paio di giorni di mattina e un altro paio di pomeriggio. Ci davano un pallone, ci divertivamo e ci pagavano”.
Il big match della prossima giornata di Serie A, Lazio-Inter, è un po’ il suo derby italiano: tifa per il pareggio, giusto?
“Sì, credo proprio che il pareggio sia il risultato più giusto (ride, ndr). La Lazio è stata la squadra che mi ha portato in Italia. Ci sono rimasto quattro anni segnando tantissimi gol. E la Serie A era un torneo molto difficile in quel momento. Tutte le squadre erano forti”.
Dopo Roma, Milano.
“L’Inter è stato il club più importante della mia carriera. Ho giocato al Borussia Dortmund, alla Lazio, al Nacional che è la squadra per cui tifo da quando sono bambino. Però all’Inter ho capito che dovevo fare gol per i tifosi. È stato bellissimo. Ogni tanto torno a Milano e ho tanti amici anche a Como. E ogni volta che ci vado, l’Inter mi riceve sempre con molto affetto. Quando sanno che sono lì, mi chiamano anche i tifosi e mi chiedono di andare a cena o a una festa. Mi sono sentito molto legato a loro. Ho sempre giocato per i tifosi. Volevo essere un idolo per la gente e non per un dirigente o un presidente”.
Si aspettava di vedere la Lazio così in alto?
“È già da tanti anni che è forte. E oggi sta giocando un calcio bellissimo. Punta a tutto: a un piazzamento Champions, alla Coppa Italia, all’Europa League. Baroni è arrivato da poco, ma è un ex calciatore che ha giocato in 10 o 15 squadre. E questo è importante, perché conosce le dinamiche dello spogliatoio e può essere amico dei calciatori. Il mister deve essere un compagno e uno psicologo, deve avere grinta e fame di vittorie. I calciatori, oggi, guadagnano tantissimo e, quindi, lui deve cercare di non parlare mai di soldi, per evitare di caricarli di ulteriori pressioni. Il suo compito dev’essere quello di prepararli, motivarli e dirgli di divertirsi”.
Non sono in pochi a vedere l’Inter tra le favorite in Champions League.
“L’Inter è sempre tra le favorite. Come il Real Madrid, il Barcellona, la Juventus. Sono forti e hanno vinto tantissimo non solo oggi, ma anche in passato”.
Quanti gol segnerebbe Rubén Sosa in questa Inter?
“No, grazie. Ho già dato e segnato molti gol importanti contro tutte le grandi. Ora tocca godersi la vita e il pallone non lo voglio più vedere (ride, ndr). Ho corso tantissimo nella mia carriera: mi fa male il ginocchio, mi sono rotto la schiena… Basta”.
Ha giocato con alcuni dei campioni che, oggi, qualcuno definirebbe “più virali” della storia recente del calcio italiano. Cominciamo da Paolo Di Canio.
“(Ride, ndr) Un pazzo, come me. Cioè: io ero pazzo, ma lui era pazzo il doppio. Aveva una grandissima tecnica ed era un ragazzo che sapeva divertirsi, ma era pazzo. Anche nelle celebrazioni: lui festeggiava alla sua maniera. Era un gran compagno di squadra, un amico. Ci siamo trovati benissimo: facevamo gol e andavamo d’accordo sia in campo che durante gli allenamenti, nonostante fossimo due ragazzi diversi”.
All’Inter, invece, il suo primo socio fu Totò Schillaci.
“Me lo ricordo benissimo. Voleva sempre segnare lui e un giorno gli dissi ‘guarda che se non me la passi mai non te la passo nemmeno io’. Da quel momento in poi è stata una stagione bellissima. E, poi, come uomo era davvero speciale. Abitavamo entrambi a Como e mi diceva sempre di passare a prenderlo per andare insieme alla Pinetina”.
L’anno successivo, il suo socio in attacco è stato Dennis Bergkamp. Perché non ha funzionato all’Inter?
“Forse era troppo giovane. Non si è trovato bene all’Inter nonostante fosse già considerato una figura importante: calciava le punizioni, i rigori. Eppure non reso al massimo perché ho la sensazione che non fosse felice all’Inter, gli mancava qualcosa. È arrivato con un altro olandese Jonk che era più grande ed era come il suo fratello maggiore, ma Bergkamp non si divertiva. Faceva gol incredibili e non festeggiava. E questo mi faceva incazzare. Gli dicevo ‘hai fatto un gol incredibile, vai sotto i tifosi, urla!’, ma per lui era come un lavoro e non un divertimento”.
Non era “alegría, alegría“, insomma. Chi è il giocatore più forte con chi ha giocato?
“Ho giocato con tanti grandi campioni, ma con nessuno mi sono trovato come alla Lazio con Riedle. Lui era fortissimo di testa e io ero piccolino. Mi cercava sempre in campo e quando andavo a battere un calcio d’angolo mi diceva ‘tu tirala alta che tanto io salto e ci arrivo, non c’è problema’. E la verità è che saltava due metri. Dopo la Lazio me lo sono ritrovato al Borussia Dortmund, è stato senza dubbio il mio socio perfetto”.
E l’allenatore che non dimenticherà mai?
“Materazzi (Giuseppe, ndr), il mio primo allenatore alla Lazio. Ha creduto in me, sin dall’inizio, anche quando non segnavo. Mi diceva ‘tranquillo che quando ne entrerà uno entreranno tutti’. Materazzi è stato il primo a credere davvero in me. Ero come un figlio per lui”.
E da mostri sacri come Zoff, Bagnoli e Bianchi cos’ha imparato?
“Zoff è stato un mister tranquillo, sereno e intelligente. Mi ricordo quando mi diceva ‘te uruguaiano, tirami in porta, sono sicuro che non mi fai gol’. E io ‘su mister che ha 60 anni’, ma me li parava davvero tutti i tiri. Bianchi arrivò all’Inter dal Napoli di Maradona, un Napoli vincente. Era un personaggio, faceva quello che voleva lui senza chiedere nulla ai calciatori. Bagnoli, invece, mi ha insegnato una cosa che uno quando è ragazzino non la capisce: la tattica. Io pensavo solo ai gol e lui mi diceva ‘devi marcare il terzino’. Io gli rispondevo che era lui che doveva marcare me, ma lui insisteva ‘devi marcarlo da un’area all’altra’, ma gli ho detto chiaramente che non ce la facevo. Poi, però, quando ho cominciato a fare gol, mi ha detto ‘fa’ quello che vuoi, ma segna’”.
A proposito dei tiri a Dino Zoff, lei è stato uno degli ultimi specialisti sui calci di punizione. Oggi, non ne esistono più: colpa dei portieri sempre più bravi o di chi tira?
“Il problema è che i calciatori non restano alla fine dell’allenamento a provare le punizioni, se ne vanno subito. Finiscono l’allenamento e corrono via. Prima, il numero 10 o il 9 restavamo mezz’ora o 40 minuti. Oggi non succede più ed è qualcosa che bisognerebbe provare a cambiare. Quelli che calciano bene devono restare e allenarsi. O tornare di pomeriggio. Non ho voglia di fare l’allenatore, ma se lo fossi punterei sul lavoro individuale oltre che su quello di gruppo. Se calci bene devi comunque allenarti perché i portieri ti studiano e capiscono dove tirerai”.
Il suo gol più bello?
“L’ho fatto in Italia, contro il Genoa. Sono entrato in aria e ho dribblato 5 calciatori. Cercalo su Youtube”.
E la punizione?
“Beh, sicuramente quella contro il Parma. Entrambe furono molto belle. E poi una che segnai alla Juventus”.