Immaginatevi un discorso motivazionale di un allenatore nello spogliatoio. “Ok, so a cosa state pensando: tutto si decide oggi, o risorgiamo come squadra o cederemo un centimetro alla volta, uno schema dopo l’altro, verso la disfatta. Siamo all’inferno adesso, signori miei. Credetemi. E possiamo rimanerci, farci prendere a schiaffi oppure aprirci la strada lottando verso la luce. Possiamo scalare le pareti dell’inferno un centimetro alla volta. Ma io non posso farlo per voi. Sono troppo vecchio….”. Bello vero? Peccato abbia riportato soltanto l’inizio. E’ Al Pacino, allenatore di football di Any Given Sunday. E’ Hollywood. E’ storia. Ma è finta. Io personalmente, ogni volta che ascolto per l’ennesima volta il discorso di un grande allenatore di college, Jim Valvano scomparso prematuramente, sento una lacrima che combatte per uscire allo scoperto (*se andate in fondo a questo pezzo, lo trovate), e quindi avverto profondamente l’importanza di parole che ti colpiscono e ti motivano. Ma resto sempre un po’ scettico quando una grande vittoria viene correlata ad un discorso dell’allenatore. Però mi sono sempre guardato bene di dirlo ai lettori: queste sono le storie più belle che si possono raccontare in uno sport. Se i Golden State Warriors andranno in finale, la serie contro San Antonio o forse gli interi playoff saranno tramandati ai posteri come quelli del discorso di Steve Kerr, nell’intervallo di gara-1, con la squadra in svantaggio di 20 punti, in casa, incapace di reagire allo strapotere degli avversari. Le parole di Kerr non sono state da film, ha semplicemente detto ai suoi giocatori di concentrarsi in difesa, fermando gli uno contro uno avversari, per trasformare questi “stop” difensivi, come li chiamano gli americani, in ritmo per l’attacco più pericoloso della Nba, che stentava ad entrare in azione. Ha denotato calma e fiducia: “Dovete trovare un bilanciamento tra ritmo e disciplina. Fatelo e andrà tutto bene”. Tornati in campo, i Warriors hanno recuperato lo svantaggio e vinto la partita. Gli scettici dei discorsi motivazionali possono sempre sostenere che la vera ragione del successo è stato un fallo di Zaza Pachulia, che criminalmente ha messo il piede sotto la caviglia del miglior giocatore degli avversari, Kawhi Leonard, mentre atterrava dopo un tiro, togliendolo dalla partita (e anche da gara-2, come minimo). Gregg Popovich, coach degli Spurs, è esattamente di questo avviso e lo ha detto apertamente (“Il fallo è stato involontario? Cosa significa, per l’omicidio colposo si va lo stesso in galera”). Peraltro, gli Spurs avevano eliminato Houston senza Leonard nei momenti chiave di gara-6 e in tutta gara-7. Ma se gli sceneggiatori di Hollywood dovranno mettere mano al discorso di Kerr per farlo competere con quello di Al Pacino, è la storia qui che fa la differenza a livello emotivo.
I Warriors, passati come un caterpillar su Portland e Houston, sono la squadra perfetta. Quella che segna più punti col maggior numero di assist ma, anche, la prima in statistiche difensive come palle recuperate, stoppate e percentuale di tiro concesse agli avversari nella stagione regolare. Ad un meccanismo che aveva vinto il titolo nel 2015 buttando via la finale del 2016 dove erano avanti 3-1, hanno aggiunto una super-stella come Kevin Durant senza che la produzione delle altre due primedonne offensive della squadra, Steph Curry e Klay Thompson, ne soffrissero minimamente. Un capolavoro assoluto. Ma nei playoff – otto vittorie senza sconfitte nei primi due turni -, è accaduto quello che non doveva succedere: Steve Kerr, l’allenatore, non ha più potuto sopportare il dolore alla schiena e le lancinanti cefalee, conseguenze di una operazione di due anni fa. E si è dovuto operare di nuovo, lasciando la squadra al suo vice, o meglio co-allenatore, Mike Brown. Chiamato quest’anno ai Warriors sia perché, considerate le condizioni della schiena di Kerr, Golden State aveva bisogno di un allenatore “vero” al suo fianco per le emergenze. Ma anche perché è considerato un maestro nella gestione e rotazione dei giocatori durante le partite. Brown, peraltro, è stato sempre ritenuto un coach “difensivo” e con la pallacanestro offensiva di Kerr, di ispirazione “D’Antoniana”, c’entra assai poco. (Piccola nota fuori testo: Brown andò a Mosca a studiare la pallacanestro del Cska di Ettore Messina, oggi sulla panchina degli Spurs, proprio per le soluzioni offensive che il c.t. azzurro proponeva, unico caso di coach Nba a fare una cosa del genere. Tante è vero che poi portò Ettore come vice a Los Angeles, dove nello staff c’era anche Quin Snyder, eliminato con la sua Utah proprio da Brown, che di Messina, a Mosca, è stato vice allenatore: non è una storia bellissima anche questa?).
Quindi, Golden State ha affrontato prima Utah poi gli Spurs con un allenatore che deve aderire alla filosofia di un altro tecnico. Il che non è affatto facile, soprattutto per le personalità completamente diverse dei due coach. Alla vigilia di gara-1 con San Antonio, tutti i giornali e commentatori americani avevano speso parole al miele per il modo sublime nel quale Brown aveva condotto la squadra durante l’assenza di Kerr. Anche i giocatori gli rendevano pieno merito. In realtà, dopo essere stato lontano dalla squadra da gara-3 del primo turno con Portland, se non per i continui contatti telefonici con Brown e alcuni giocatori, Kerr s’era fatto vedere all’allenamento di Warriors alla vigilia della finale dell’Ovest, non andando però in panchina. Ma quando i Warriors sono crollati, fino al -25, nel primo tempo, Kerr, indossata una T-shirt della squadra, è andato in spogliatoio e ha parlato. Ed è facile pensare che in questo uomo smilzo, un po’ sofferente, troppo vecchio per scendere in campo per aiutare la squadra col suo tiro e i 5 “anelli” conquistati con Chicago e San Antonio, i giocatori dei Warriors abbiano davvero rivisto Al Pacino. Non è una bella storia? Lasciate perdere che i piedoni assassini di Pachulia abbiano fatto il resto. Non è un film? Ce ne sarebbero tanti da girare in questi meravigliosi playoff Nba, dove il più piccolo di tutti, ma immenso, Isaiah Thomas, ha portato i Boston Celtics alla finale dell’Est contro i Cavs campioni in carica, partendo dallo 0-2 con Chicago nel primo turno, quando è stato costretto a seppellire la sorellina morta in un incidente d’auto. Per questo, non crediamo che il pronostico sia già scritto: anche se gli Spurs non avranno Leonard e con i Celtics nettamente sfavoriti contro lo strapotere di LeBron James non esistono risultati scontati. Altre storie, altri grandi discorsi motivazionali stanno per essere scritti.
Luca Chiabotti
*Jim Valvano agli Espy Awards del 1993, poco prima di morire per un tumore a 47 anni, disse, tra le altre, queste parole: “Per me ci sono tre cose che dovremmo fare tutti i giorni della nostra vita: la prima è ridere, dovremmo ridere ogni giorno. La numero due è pensare. Dovremmo passare del tempo ogni giorno per pensare. E la numero tre, dovremmo avere ogni giorno emozioni che ci spingano a piangere, per la felicità e la gioia. Pensateci, se ridiamo, pensiamo, e piangiamo, che grande giornata abbiamo vissuto! Se lo fate sette giorni su sette, avrete qualcosa di speciale”.