Ci vorrebbe un amico. Un amico vero, uno di quelli a cui poter confessare i segreti e le paure peggiori. Meglio, uno che ti capisce al volo, senza che parli, solo perché sa, perché ha vissuto le stesse sensazioni, ha superato le stesse difficoltà, ha gioito delle stesse gioie. Ci vorrebbe un altro super-allenatore come il Boris Becker degli ultimi tre anni, uno che, però, oltre a vincere gli Slam e a salire al numero 1 del mondo, abbia sofferto anche la caduta e i più atroci dubbi di un campione alla ricerca del tempo perduto. Ci vorrebbe, dice Novak Djokovic, che arriva nella sua crisi più nera agli Internazionali d’Italia numero 74 a Roma. Sulla terra rossa dove, dodici mesi fa, beffato in finale da Murray al Foro Italico – dopo quattro urrà (2008, 2011, 2014 e 2015) -, si vendicava subito dopo, sotto il traguardo del Roland Garros, colmando l’unica casella vuota nella collezione di tornei dello Slam. Per ritrovarsi però, poi, all’improvviso, con le gomme sgonfie. “Dagli Us Open, ho avuto tanti su e giù come risultati. Ho giocato un buon torneo alle World Tour Finals, sono arrivato in finale, ma ancora una volta, giocando contro Andy, non ho più trovato il gioco di cui avevo bisogno. E lo stesso è successo, più volte, anche quest’anno. Quando mi serviva di venir fuori col mio gioco migliore, non ce l’avevo. E’ una combinazione di cose. Probabilmente il gioco, gli aspetti mentali ed emotivi, direi, perché non ero così fresco, dopo tutto quello che ho raggiunto gli anni prima. Dopo Roland Garros ed Olimpiade, tutto quello che è successo lì, e mi ha portato via tanto”.
Nole è un ragazzo intelligente, ha lavorato tanto su stesso, dal fisico alla dieta, dalla tecnica alla tattica, per scardinare la porta d’accesso al binomio Federer-Nadal. Ma una crisi così non l’aveva prevista: “Tutte queste circostanze mi hanno aiutato a pensare e a riflettere su quanto mi è successo negli ultimi dieci anni, perché quando sei in quella specie di macchina, sei in una specie di ciclo del circuito del tennis, e il motore rimane sempre acceso. Poi si arriva al momento in cui le cose non vanno tanto bene e devi davvero ragionare su che cosa è successo e cercare di essere un nuova, una migliore, versione di te stesso. Ed è quello che sto cercando di fare”. Non è una questione di motivazione, anche se lui stesso ha specificato che il tennis non è più la sua priorità: “Amo questo sport, lavoro duro come tutti per essere il meglio che posso, voglio sempre far bene, e il modo in cui ho giocato nelle ultime 3-4 settimane, mi sta dando tanto incoraggiamento ed anche eccitazione per questa settimana e, ovviamente, i French Open. Il mio livello di prestazione è migliore di due mesi fa, e questa è una cosa positiva. Sto cercando di canalizzarlo nel modo giusto e riusarlo per la fiducia. Che, ovviamente, non era così alta, perché non avevo vinto tanti grandi match quest’anno. Ma so di che cosa sono capace, e credo in me stesso e nelle mie capacità di giocatore. Ho giocato tante partite a questo livello e e so che cosa ci vuole per vincere grandi tornei. Perciò, sono sicuro che se continuo a dedicarmi e a lavorare duro, i risultati seguiranno. La semifinale nel “1000” di Madrid è stato uno dei miei migliori risultati stagionali, quindi ho fatto un passo nella giusta direzione”.
A questo punto, dopo il distacco da mamma-Vajda, il coach che l’ha accompagnato per 11 anni, Djokovic ha bisogno più che mai di un amico-allenatore. Intanto, si accompagna col fratello minore di quattro anni, Marko, e al guru, ex tennista Pepe Imaz, che predica pace e amore. “Non so facendo un reclutamento, è più una conversazione, un dividere le esperienze e aiutare qualcuno in queste situazioni, ed io ho ammirazione specialmente per gli atleti e gli ex tennisti che hanno fatto la storia del loro sport. Parlare di persona o al telefono con loro mi aiuta molto. Ho avuto il privilegio di lavorare per tre anni con Boris e mi ha portato tanto nella carriera e nella vita. Con persone così trovi molto in fretta un campo molto comune e una comune lingua perché puoi relazionarti in cose nelle quali tutt’e due siamo passati, e questo rende più facile trovare soggetti di discussione. Non è che gli mando un CV, è più una conversazione amichevole, un tentativo di una relazione, una chimica per instaurare una relazione che magari si evolve e diventa anche una relazione professionale”.
Già, ci vorrebbe un amico. Una moglie non basta, per “un cannibale” che dodici mesi fa stava divorando il tennis.
Vincenzo Martucci
(foto Paolo Pizzi)