C’era un tempo in cui ci sembrava di toccare il cielo con un dito, quando quasi tutto sembrava possibile, quando subire un placcaggio potente era solo un cruccio per una probabile perdita dell’ovale. Il dolore non si manifestava, si continuava a correre e a lottare come eroi e Dei, fino all’ultima ruck, fino all’ultima meta. La volta dopo – pazienza se fosse non prima di un anno di distanza – la magia ripartiva, X uomini contro X uomini (no, non XV contro XV, forse l’organizzazione non era così divina…) incrociavano i loro destini, trascinati dalla passione quando il fisico mostrava i primi segni di affaticamento, dal cuore quando si trattava di placcare da soli l’ultimo avversario lanciato in meta come un autotreno indisturbato. Finiva La Partita e ancora caldi dal gioco, senza particolari acciacchi fisici, se non quelli immediatamente visibili e agognati come medaglie in battaglia, salutavamo i nostri avversari alla maniera degli eroi greci e troiani.
COME AI TEMPI DI ILIO
Ajace Telamonio, noto tutti i giorni come Fred, un dolmen cubico di 2 metri (quadri) x 120 kg, ci salutava donandoci quanto di più prezioso: la stretta di mano senza compromettercela per sempre. Ulisse, per gli amici Bertino, assoluto re incontrastato dei filibustieri, ci ricopriva di onori, soprassedendo su quella sua meta rubacchiata, molto più calcistica che rugbystica... che autentico macellaio tra gentiluomini! Non mancavamo mai di salutarlo augurandogli un lungo, lunghissimo viaggio di ritorno per Itaca – anzi no, per Cocomaro di Focomorto, ma l’augurio aveva la stessa benevolenza…
Paride invece, per tutti Al Belo (Il Bello), non poteva fregiarsi di molto onore, attento come era a spingere la mischia con le urla più che con se stesso, guardandosi bene dal rischio di ritrovarsi con le orecchie a cavolfiore come tra gli impavidi del pack. Vanitoso com’era, uscire dalla battaglia con giusto qualche lividetto e un’ombra di sangue sulla maglietta da vantare al terzo tempo con le ragazze era per lui il top. Perché allora questo villano era tra gli dèi del sabato pomeriggio rugbystico? Perché, da grande arciere troiano, la mira era pressoché perfetta. Come piazzava lui in mezzo ai pali non ce n’era in tutto l’Olimpo – perdonateci, in tutto il circuito ferrarese degli amatori…- e come da quel piede uscissero quei drop a centrare sempre i pali nessuno se ne fece spiegazione. Semmai invidia, sentimento poco ovale ma molto divino…
ACHILLE E LA FRANCESINA
E poi lui, la star per antonomasia, Achille, all’anagrafe Andrea Campioni – neanche a farlo apposta… – bello e invincibile, una sorta di Lomu bianco (e qui Mauro Bergamasco, soprannominato così nei primi anni di carriera, ha tutto il diritto di denunciarci nell’ordine per brutti ricordi di un epiteto troppo ingombrante, calunnia e demenza di chi scrive…). Rapidissimo e pressoché implacabile, al suo esordio chiunque si chiedeva, senza risposta, come fosse possibile arrestare quell’ossesso più divino che umano. Fino a quando il ct troiano, romano trapiantato a Ferrara e quindi autoproclamatosi con grande umiltà “diretto discendente di Ilio ed Enea“, suggerì al suo uomo più forte, Ettore di Migliarino, che bastava una francesina (non un’avvenente pulzella gallica, ma un colpo di mano – letteralmente -, uno schiaffo sul piede dell’avversario per fargli perdere l’equilibrio) piazzata forte e precisa sul tallone destro che l’eroe acheo da Superman ante litteram sarebbe diventato un bambinone sofferente e piagnucoloso. Dove fosse poi geograficamente collocato il fiume Stige, giusto per farci un rapidissimo bagnetto, purtroppo non ci è dato sapere.
Un Fato cinico e baro ci aveva destinato delle attività e dei progetti di vita ben lungi dai fasti e dalla gioia del rincorrere un ovale (sentendoci, tra poco serio e molto faceto, come gli dei) se non al parco fuori città il sabato – un modo ottimo, il rugby, per tenere 30 energumeni lontani dal centro il sabato pomeriggio, come diceva Oscar Wilde.
A quel punto due nemici, malvagi e inarrestabili, ci facevano visita.
EROI E SEMIDEI… MOLTO MORTALI
Il primo, la doccia. Finito il match, ancora carichi di muscoli e orgoglio belli caldi, l’appuntamento era al terzo tempo al pub Il Molo in centro (perdonateci Sir Wilde…). Peccato che il tempo di raggiungere (leggasi trascinarsi fino a) gli spogliatoi e di prepararsi per la doccia si portava via qualunque forma di presunta divinità. I muscoli si erano raffreddati e le botte, i lividi, i placcaggi presentavano il conto. Sotto i getti d’acqua, tenuti al massimo per coprire i lamenti, andavano in scena i gemiti miserabili e umani degli Icaro de ‘no antri (o meglio ad nu’altar, trattandosi di un volo improvvido sui cieli di Ferrara), di coloro che vollero salire al cielo delle touche e al sole accecante del gioco glorioso e ardito, ma con quasi 40 primavere sulle spalle e una preparazione da birretta al pub (anzi diciamo pure birrette, con un plurale grande così…). Inevitabile il terzo tempo fatto dalla terza età, tutti ancora malconci e desiderosi di abbracci d’incoraggiamento simulati (uno vero ci avrebbe definitivamente sbriciolato). La pizza finale della sera sanciva la fine di una giornata vissuta da leoni ma col fisico da pecore, pronti a ripeterla la prossima volta, ossia fra non meno di un anno, il tempo minimo destinato al recupero.
Ogni anno si ripeteva questa meravigliosa mattanza, con gioia di riesserci, paura di non esserci più dopo la doccia, qualche giovane innesto e una fatica sempre maggiore a formare un numero congruo di giocatori (si arrivò presto a una versione ferraresissima di Rugby Seven – che la leggenda volle sorgere in Scozia nel 1883, ricavando molto pragmaticamente da una squadra di 15 giocatori due squadre da 7 e l’arbitro – ma con previsti placcaggi e mischia ordinata della sola prima linea).
IL TEMPO E LA FINE, O NO?
Così avvenne, tra mito divino (poco) e pietà umana (parecchia), fino a quando arrivò il secondo grande nemico, il Tempo.
Siccome ogni anno il bollettino medico di fine partita era sempre più numeroso, senza mai decretarne ufficialmente la fine sul campo la nostra nobile lega si sciolse, travolta dal buon senso (leggasi pavidità) che l’età imponeva, dalla necessità (leggasi perdita di passione) di rimanere integri per altri doveri da assolvere.
Del resto, seppellita l’ascia dell’orgoglio e del fisico non più giovane, non rimaneva che rivivere i bei tempi andati al Molo, davanti a tre belle pinte di birra, una morbida bitter ale, una IPA più erbacea che fruttata e una strong ale rotonda e corposa. Consapevoli che i giorni più belli, proprio perché tali, non torneranno più. Fine.
No! Ci sono ancora coloro che resistono anche al Fato e al Tempo. Indomiti, irriducibili… matti come cavalli!
OLTRE LA MANICA, AVANTI TUTTA
Ci spostiamo da Ferrara e Troia e atterriamo nella patria del rugby, nella nazione di Rugby, quell’Inghilterra che noi Azzurri non siamo mai riusciti a superare (con loro solo gli All Blacks, unici due giganti mai battuti).
Metti un falegname, un avvocato e un vigile del fuoco tra i 56 e i 68 anni. Sono signori tanto stagionati quanto malati di rugby. Non appassionati. Non fissati. Malati. E forse qualcosa di più. Nel tempo libero tagliano legna, difendono clienti davanti a un giudice e spengono incendi. Poi, anzi prima, si dedicano alla loro principale attività, la prima linea della palla ovale.
In tre fanno 187 anni, una delle più vecchie prime linee della storia del rugby inglese, ma diciamo pure anche mondiale.
Ally Jones, 56 anni, vigile del fuoco, Graeme Kenna, 68, avvocato e Gary McAdam, 63, falegname, hanno giocato insieme per la prima volta 15 anni fa e da allora prendono parte a match dell’Oldershaw Rugby e Football club e talvolta riempiono qualche buco nel Wallasey e nel Holyake on the Wirral, borgo marino situato tra il Galles e la città di Liverpool, risultando inevitabilmente tra i giocatori più noti.
VIA DEI MATTI
Ce li racconta “Touchline“, la newsletter della federazione inglese. I tre eroi (leggasi i tre pazzi) hanno cominciato in modi diversi. Il matto n.1, Ally il vigile del fuoco, ha avuto un brillante passato di difensore calcistico, ma quando “il primo giorno al campo mi dettero una palla dicendomi corri verso quei ragazzini e asfaltali: più li asfaltavo, più mi dicevano ‘bravo’ e io pensai ‘questo è lo sport per me!’”
Il matto n.2, Graeme l’avvocato, si presenta in effetti come picchiatello capo, un purosangue della follia già in tenera età: l’insegnante di educazione fisica aveva chiesto alla classe di scegliere tra la squadra di rugby dalla parte sinistra e tutti gli altri sport dalla parte destra, ma il nostro pensò alla destra e alla sinistra del professore, così finì con lo sposare casualmente il rugby.
Il matto n.3, Gary il falegname, non ha toccato una palla ovale fino ai 31 anni, quando si uní all’allenamento rugbystico di un collega e da lì non si voltò più indietro. Del rugby trova tutto unico: “l’aspetto sociale, le trasferte e i tour e ogni altra cosa, niente è come nel rugby!”
L’enorme numero di partite giocate permette ai tre di fare conoscenze dovunque, perfino in Australia nel lontano 1994, quando mentre Ally il vigile del fuoco lavorava in una barca, accettò l’invito (avevate dubbi?) a giocare una partita e scese in campo con la maglia del Wallasey. Durante il gioco, uno degli avversari, un dottore che si era laureato a Liverpool, lo riconobbe dalla maglietta, spiegandogli che non solo aveva giocato contro il Wallasey, ma proprio una volta quando c’era lui in campo. Si stavano insomma affrontando di nuovo anni dopo, dall’altra parte del mondo. Facile, no?
“Dovunque vai nel mondo, se c’è il rugby puoi conoscere e parlare con le persone. Ciò che adoro di questo sport è l’aspetto sociale, è decisivo nello sviluppo di una persona”.
Anche Graeme, l’avvocato, è a suo modo un esempio e una fonte di ispirazione: è tornato in campo nonostante il rifacimento del ginocchio e la sostituzione dell’anca: amore smisurato per il rugby, per il quale ogni ostacolo si può superare. Anche buon senso ed equilibrio…
Giusto così, una cosa che il rugby non perderà mai è il non prendersi troppo sul serio. Tra presunte ex-divinità impacciate e doloranti e highlander irriducibili. È Ovalia, bellezza.