“E la giustizia sarà in noi ristabilita,
quando, da l’alto, un veltro in Italia verrà,
che non sarà da terra e da peltro nutrito,
ma da sapienza, amore e virtute:
e sua nazion sarà tra feltro e feltro”.
Profetizzava Dante Alighieri nel primo canto dell’Inferno della Divina Commedia richiamando all’ascesa nel Bel Paese dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Arrigo VII di Lussemburgo. Eppure, oltre seicento anni dopo il Sommo Poeta, l’unico “levriero” in grado di conquistare l’Italia è Attila Sallustro, veloce come l’elegante animale, ma soprattutto astuto come un felino.
Fisico asciutto, alto, abbronzato, occhi neri e chioma bionda riccioluta, Sallustro nasce ad Asunción (Paraguay) nel 1908, ma il sangue che scorre nelle vene è italiano. I genitori si sono trasferiti per far fortuna in Sudamerica, ma l’infanzia per lui è complicata tanto che all’età di otto anni il medico gli consiglia di iniziare a giocare a calcio per rafforzare il proprio corpo.
La carriera parte così nei “pulcini” di Asuncion, tuttavia a dodici anni è costretto a cambiare vita trasferendosi con la famiglia a Napoli. Il suo carattere vivace non passa inosservato al talent-scout Mario De Palma che lo conduce fra le giovanili dell’Internazionale Napoli, ma ecco ancora una volta un cambio di prospettiva grazie alla fusione con il Naples che porta alla nascita dell’InterNaples con cui Sallustro fa il suo debutto fra i professionisti.
Nonostante abbia soltanto diciassette anni, Attila spicca con la maglia azzurra segnando dieci reti in tredici presenze trascinando l’InterNaples alla finale della Lega Sud 1925 e alla promozione nella Divisione Nazionale. Un riconoscimento importante, ma in quel periodo c’è molto fermento nel calcio partenopeo tanto che l’anno successivo nasce il Napoli di cui Sallusto diventa il primo centravanti della sua storia.
Considerandolo un passatempo, il padre Gaetano lo costringe a giocare gratuitamente senza però che il figlio brilli a tutti gli effetti nella massima serie. Nella prima stagione segna solo un gol nella sfida vinta per 9-2 dall’Inter, mentre il Napoli retrocede venendo ripescato solo per questioni territoriali. L’anno successivo non va molto meglio con sole cinque reti in dieci presenze e ancora una volta una retrocessione salvata in corner da un ripescaggio.

Il preludio a una grande carriera che esplode nella stagione 1928-29 quando Attila contribuisce all’accesso del Napoli alla nuova Serie A a girone unico con ventidue gol su ventotto partite disputate. Per la nuova avventura in città arrivano Antonio Vojak, prelevato dalla Juventus, e soprattutto Marcello Mihalich dalla Fiumana con cui Sallustro crea una coppia fantastica. Arrivano tredici gol in trentuno sfide, un quinto posto a sorpresa in campionato accompagnato da venti reti per Vojak e dieci per Mihalich.
Le prestazioni non passano inosservate agli occhi di Vittorio Pozzo che spesso gli preferisce Giuseppe Meazza dell’Ambrosiana, ma in occasione della sfida con il Portogallo del 1 dicembre 1929 decide di convocarlo. E’ un’amichevole dove testare nuovi innesti in azzurro fra i quali i bomber del Napoli e la prestazione è sbalorditiva: l’Italia domina i lusitani passando subito in vantaggio con Mihalich, venendo però recuperata al ventinovesimo da Pepe Soares.
Gli azzurri sono nettamente più forti e sette minuti dopo arriva il vantaggio di Raimundo Orsi che, nel giro di un minuto, firma una doppietta. Nel secondo tempo Adolfo Baloncieri firma il poker, ma ecco che al settantasettesimo arriva il momento di Sallustro che segna la prima rete in Nazionale. A chiudere i conti ci pensa Mihalich, però per Attila le porte in azzurro si chiudono velocemente.
Nelle stagioni successive le prestazioni calano per Sallusto che tuttavia diventa un vero e proprio “re” a Napoli. Al termine di un’ampia vittoria con il Modena gli viene regalata Balilla 521 nera con la quale in via Roma ha un brutto incidente. L’attaccante investe infatti un passante, ma invece di protestare, questo gli dice “Scusate tanto, è colpa mia. Voi potete fare tutto quello che volete…”.
Quel divismo non frena Attila il 4 febbraio 1932 torna dopo tre anni in Nazionale, chiamato questa volta per una sfida di Coppa Internazionale contro la Svizzera. L’Italia nel frattempo ha saltato l’appuntamento con il primo Mondiale della storia, ma nel trofeo continentale si districa bene fra superpotenze come Austria e Cecoslovacchia. A Napoli arrivano gli elvetici, ma anche qui non c’è storia perché Francisco Fedullo firma una tripletta che regala i due punti agli azzurri.
Il rendimento di Sallusto non è più quello di un tempo, ma il Napoli vola tanto che nel 1933 che nel 1934 chiude il campionato al terzo posto conquistando nel secondo caso l’accesso alla Coppa Europa. Nella vita di Attila spunta però un nuova persona, Elena Lucy Johnson, figlia di un ballerino inglese e una ballerina russa scappata dalla Russia dopo la Rivoluzione Bolscevica.

La giovane arriva a Napoli nel 1930 entrando ben presto nelle grazie dell’imprenditore Eugenio Aulicino attraverso la madre Lydia Abramovic che la porta a debuttare sul palcoscenico. Una sera, nel 1932, Lucy si trova ad andare in scena davanti ai giocatori del Napoli, reduci da un bel successo. Al termine dello spettacolo Abramovic scende in platea chiedendo provocatoriamente agli spettatori con chi farebbero un figlio fra le sue ballerine. Attila si avvicina e confessa che vorrebbe aver un erede dalla figlia Lucy.
Per la ragazza è un dramma, si nasconde dietro le quinte, ma con calma la convince che può frequentare quel ragazzo così amato a Napoli tanto da percepire finalmente uno stipendio di 900 lire al mese. Il loro amore sboccia così pian piano anche se le chiacchere non mancano vista la differenza d’età fra le due.
Ben presto il gossip supera il valore del giocatore che non riesce a salvare il Napoli da brutte prestazioni. Ormai stufo delle insinuazioni, Sallusto risponde al pubblico che la compagna non c’entra. Nonostante ciò nel 1937 lascia il Napoli dopo undici anni e va alla Salernitana compiendo un ultimo colpo di coda: la promozione in Serie B. Ormai stanco di quello sport per cui ha vissuto sin da bambino, l’attaccante non riesce a salvare i granata dalla retrocessione e nel 1939 lascia il calcio giocato all’età di trentun’anni, rimanendo sempre una divinità per una città intera.