Moise Kean, 19 anni, giovane promessa dell’attacco della Juve e della nazionale azzurra, italiano ma nero di pelle, a Cagliari non ha sbagliato. Prima nel segnare il gol del raddoppio bianconero, poi nell’esultare, episodio che ha dato tanto sui nervi ai tifosi avversari e non solo. Sarebbe stato più irridente danzare sotto la curva con gioiose mosse o è stato più onesto togliersi di dosso la gioia, aprire le braccia e sfidare la curva con uno sguardo onesto e orgoglioso? Un lampo degli occhi lanciato nel vuoto, con l’intenzione di non voler riconoscere la rappresentanza di una curva che utilizza l’insulto razzista come ultima e definitiva appropriazione del proprio potere.
Anche qualche compagno ha criticato Moise, lo ha portato via dal trambusto, ma questo non toglie che il gesto sia un’espressione di italianissimo orgoglio, contro il becerume che divide le persone secondo i colori della pelle o le religioni , stupidamente ignaro che le differenze sono una forza, non una debolezza.
Come se non bastasse nella serata del piccolo episodio che raccoglie il sottofondo di un clima nefasto, anche il presidente del Cagliari, Tommaso Giulini, ha incrementato il giustificazionismo: “Noi non siamo razzisti”. Sicuramente i tifosi nel complesso non lo sono, ma se una fetta di questa parte è infettata dalla condivisione di un pensiero pericoloso, non si può fare finta di niente, derubricare i cori (risparmio il loro tenore), considerarli poco più che una goliardata.
Non è un caso che ovunque accadano episodi di cori razzisti, odiosi e prolungati (evidente il caso Koulibalyin Inter-Napoli) c’è sempre qualcuno che non analizza le radici dell’episodio, ma mette le mani in avanti recitando la stessa frase del presidente cagliaritano, quasi per un senso di colpa con richiesta di assoluzione. Insomma, il buuu razzista dei propri tifosi non è la stigmate individuale, bensì molto allargata e il giustificarla non risolve il problema, congenito in certe folle meschine.
Ognuna di questi presidenti rivendica il giusto lavoro per il rispetto dello sport, la negazione dei rigurgiti razzisti, l’appropriazione di un senso del calcio che non liberi gli istinti più biechi, ma dispensi gioia. E non possiamo che essere d’accordo, profondamente convinti che debellare la malapianta dell’intolleranza non sia soltanto una missione del calcio, ma dell’intero paese. Ecco perché difendo il gesto di Moise, di un ragazzo che ha con sé la forza di un pensiero e che da subito ha il coraggio di metterci la faccia rispondendo alla provocazione becera con un gesto che è soltanto l’orgogliosa rivendicazione delle proprie origini e del colore della pelle. Qualcuno si scandalizza per la sfida di Kean, non ho sentito molte voci scandalizzarsi per le volgari esultanze di Simeone e Ronaldo. Anzi, riecheggiano le indignazioni verso il tecnico dell’Atletico Madrid, non quelle che hanno visto protagonista il portoghese in Champions. Il benaltrismo vive e lotta con noi. Caro Moise, un campione non si manifesta soltanto nei calci di rigore, ma per il coraggio che ha nel ribellarsi al luogo comune, chiamatelo come volete, razzismo o semplicemente intolleranza, in fondo, sono la doppia faccia della stessa medaglia.