E così è arrivato anche l’ennesimo “cucchiaio di legno”. Mitigato forse, chi s’accontenta…, dal misero punticino in classifica dovuto alla sconfitta inferiore ai sette punti con gli scozzesi. Lasciamo a Nicola Melillo, bravissimo appassionato competente collega della Gazzetta dello Sport, specialista nelle cifre in stile Usa, specificarne il numero. Come lasciamo a Vittorio Munari, eccezionale interprete dal video in compagnia dell’erculeo (a tavola)dd simpaticissimo Antonio Raimondi, scopritore del termine ai più sconosciuto “whitewash”. Sottile distinzione tra chi è arrivato ultimo e chi ha subito tutte sconfitte. Ma lasciamo questi sofismi letterari a chi si vuol crogiolare. Perché noi, non ci siamo divertiti, quando, contro la Scozia, in un Olimpico infiammato di splendido tifo entusiasta – magari l’avessero Roma e Lazio, vero, senza i consueti vaffa d’occasione -, l’Italia ha subito un’altra sconfitta dell’era O’Shea.
Il Corsport-Stadio ha titolato “Ingiustizia”. Lasciamo a Francesco Volpe, peraltro bravissimo, competente, collega rugbistico di pratica sportiva e discendenza, la sua presa di posizione. Che però non condividiamo. E non certo per gettare fango addosso ai nostri ragazzi. Protagonisti di una delle più belle prestazioni degli ultimi anni. Ma per non gettarne addosso alla Scozia, che non lo merita. La partita, qualunque arbitro lo può ben testimoniare, termina all’ottantesimo e oltre, fino all’ultima azione di gioco. Orbene, se gli scozzesi erano sotto a tre quarti di gara, poi allo sprint ci hanno superato, due volte, al piede, di chi è la colpa? Del Signore delle Cime, che all’Olimpico è sicuramente di casa vista la vicinanza con la Santa Sede. Dell’arbitro, che ha decretato le ultime due punizioni per gli avversari? Di Laidlaw che ha centrato due volte i pali in pochi minuti, dimostrando freddezza, lucidità, determinazione, coraggio? E dopo tutto, battendosi per la sua bandiera, quella di Flowers of Scotland? E nessuna responsabilità da parte degli azzurri, colpevoli delle due infrazioni decisive? Ma via, Francesco. Freniamo il disappunto, lo scoramento, la rabbia, nel vedersi ciuffare una vittoria fino a quel momento legittima e meritata, condannati invece alla solita sconfitta. Stavolta, ci sia concesso, poco onorevole.
Perdere di due punti, sul traguardo, fa male. “Sono distrutto”, dirà Conor O’Shea alla fine. Amareggiatissimo Sergio Parisse, capitano coraggioso e sfortunato di una navicella azzurra che fa sempre più acqua – di qui forse whitewash, vero Vittorio? -. Abbattuti nel morale gli altri giocatori, superati sul filo di lana. Certo, fa male. Ma i nostri guai non sarebbero stati cancellati di colpo dalla ormai quasi sicura vittoria. Magari fosse così semplice. Una vittoria, una, non fa primavera. E il rugby italiano è immerso nell’inverno più duro e glaciale degli ultimi venti anni. Da quando, cioè, fummo ammessi alla tavola ovale di re Artù del Sei Nazioni. E poi, va considerato che sul campo ci sono anche gli avversari. Cioè gli scozzesi. I quali, per motivi loro, hanno disputato la peggior gara di questo luminoso Sei Nazioni. Giocando male, arruffoni, spreconi, subendo sovente il nostro gioco. Ma capaci però di reagire e ritrovarsi in quello splendido (per loro, certo,) gran finale. Perché anche la Scozia, come le altre formazioni di lingua inglese, sa impostare la tattica a seconda delle situazioni. Ciò che a noi, modestamente, ancora manca. Loro, tutti loro, in questo, sono avanti un secolo. Quello giocato. Quando noi si marciava su Adua o Addis Abeba.
A nostro sommesso avviso, avrebbe scritto Gualtiero Zanetti, il “Maresciallo”, nostro grande direttore al tempo di una Gazzetta aurea in tutto, meno che nelle palanche, la prova della Scozia, squadra emergente che ci supera di parecchio nel ranking mondiale, va vista in due direzioni. Col peggior Russell mai visto sul campo quest’anno. Lui, il mediano d’apertura, genio e sregolatezza di questa formazione, l’uomo che detta il gioco, protagonista di una gara incolore, abulica, imprecisa, arruffona, evanescente. Finché, ecco la nostra vera sfortuna, una botta in testa a un quarto d’ora scarso dalla fine ha costretto l’arbitro a farlo uscire traballante, come da regolamento. Ed ecco la svolta, dettata da Townsend, coach scozzese, in passato grande trequarti con la palla in mano. Laidlaw, l’uomo guida della Scotland, lui sì avrebbe meritato l’MVP invece di Allan, troppo frettolosamente premiato quando ancora l’Italia si trovava in vantaggio – Vittorio, tu che te ne intendi più di tutti nello stivale rugbistico, sarai d’accordo, penso -, è passato all’apertura con l’innesto di Price quale n.9. E la Scozia è cambiata. Cioè ha variato la sua tattica. Aggiungiamoci che dalla panchina è emerso anche Richie Gray, fratellone di Tom, erculea seconda linea, mai schierato finora per infortunio, e la Scozia è tornata Scotland anche davanti. Risultato: 29-27. Per gli ospiti delle cornamuse. Ingiustizia? Attenzione a usare i termini appropriati. Il giudizio dei rugbysti veri, è sempre molto attento, preciso e quindi spietato.
Ma torniamo sugli azzurri. Molte le note positive. Ma qualcuna no. Minozzi estremo è ormai più di una rivelazione. La sua meta di regolarità è arrivata puntuale. Bene Allan, che giocava un derby personale essendo lui mezzo scozzese per parte di padre, ha preferito il nostro stellone e lo ringraziamo di cuore. Eroico Parisse, che viene definito fuori forma, ma al quale dobbiamo sempre dire tutti un grazie grande un palazzo per la sua presenza importante quale uomo faro di una ciurma di ragazzoni. Tra i quali segnaliamo, ma i rugbisti veri li hanno certo già notati, due flanker di peso e di colpi, come Negri e il debuttante Polledri. Bravissimi Ghiraldini, altro candidato all’Mvp e Zanni, misteriosamente fatti uscire negli ultimi drammatici dieci minuti. Forse per dare un aiutino alla Scozia? Due veterani di grande esperienza ed eccellente valore, non si tolgono dal fuoco nel momento del bisogno. Napoleone non l’avrebbe mai fatto. Né Bonaparte, né tantomeno Munari, che il sangue del vinto ai tempi del suo Petrarca lo sapeva annusare, eccome. Quindi, su questa pretesa “Ingiustizia”, mettiamoci pure qualcosa di nostro.
Persa ancora una partita, con solite conseguenze immaginabili: cucchiaio di legno, whitewash, delusione, abbandono totale della stampa, rabbia dei vecchi azzurri verso il sistema, polemiche a non finire. Ma allora, cosa dovrebbe accadere in Inghilterra? Dove la grande favorita del torneo, a gennaio seconda nel ranking dietro gli All Blacks, è finita appena davanti a noi, penultima, con tre sconfitte. Di cui l’ultima, gigantesca, nel suo tempio di Twickenham, subita dall’Irlanda. Capace così di realizzare il grande slam e conquistare la Triple Crown delle squadre britanniche, proprio nel giorno sacro di San Patrizio. Costringendo le fabbriche di birra sull’isola a fare gli straordinari la settimana seguente per rifornire le esauste riserve azzerate. E laddove la stampa, a differenza della nostra, dominata solo ed esclusivamente dal calcio, ha crocifisso il coach Eddie Jones e tutti i giocatori. Ex beniamini, ora colpevoli dell’onta sportiva dell’Impero.
A ciascuno il suo. Noi ci teniamo i casini di casa nostra. Le accademie che costano una follia per sfornare prodotti da allevamento, poi incapaci di trasformare un gruppo di belle speranze in squadra vera. Un campionato che non tira né attira, trascurato a favore delle due franchigie che vincono qualche partita nell’indifferenza generale, tranne che a Treviso e forse a Parma. Una dirigenza federale sempre più discussa e attaccata. Uno staff tecnico per la nazionale costosissimo ed enorme (cosa direbbe oggi Marco Bollesan, cittì in solitario con un secondo che nemmeno voleva) e con un head coach bravo e simpatico, ma che promette vittorie chissà quando. Lasciamo questi problemi a chi se ne dovrà occupare. Noi teniamoci stretti quanto di buono emerso dall’Olimpico. Anzitutto un pubblico che crede ancora nel fenomeno rugby, dove ci si diverte, si può fare il tifo in allegria con gli avversari bevendosi una birra. Ciò che nel calcio è da tempo off-limits. Un gruppetto di ragazzi di belle speranze. Cui sarebbe da aggiungere qualche altro elemento che ha ben figurato nel recente passato, messo forse troppo frettolosamente da parte nell’ansia di scoprire nuovi talenti. Per fare qualche nome, alludiamo specialmente a Gori, candidato addirittura quale capitano dell’era post-Parisse, poi sistemato in panca per brevi comparse finali così da meritare il cap, fino a venire relegato nel simpatico teatrino di Piervincenzi su DMax. E poi Tebaldi, Fuser, Minto, Venditti, Morisi, Campagnaro (infortunato, lui è scusato), McLean troppo presto giubilato e qualche altro che può sfuggirci.
Ultima annotazione, solo personale. Perdere per perdere, perdiamo con i nostri. Cosa serve schierare Steyn, Budd, McKinley solo per avere anche noi gli equiparati come gli altri? Chissenefrega. Magari troviamo per strada qualche altro come Minozzi, o come i due freschi regali di lingua inglese, Negri e Polledri. Esaurita la vena degli oriundi argentini, un colosso come Castrogiovanni (eroico per tutto il campo, dove lo troveremo più?) che tanto ci hanno regalato, andiamo con i nostri. Sennò, davvero, le accademie a cosa saranno servite? Ora all’orizzonte del rugby azzurro, si intravvede il “Tour in Japan”, sede della prossima coppa del Mondo. Poi a novembre l’esame di stato con la Georgia. Con la Georgia? Se non è il passo del gambero…
Carlo Gobbi