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Calcio

Addio, Maradona: patrimonio dell’umanità che ha sfidato l’impossibile

Da Enzo D'Orsi 25/11/2020

Dopo l'operazione al cervello, Il campione argentino si spegne a 60 anni a Baires: ha stregato miliardi di appassionati, con il suo calcio inventato in ogni partita

La morte di Maradona è un dolore profondo per quelli della mia generazione. Abbiamo avuto la fortuna di vedere i più grandi campioni degli anni Ottanta e Novanta, di parlare con loro, superando talvolta le barriere della lingua. Di tutti i fenomeni di quelle stagioni, Maradona è stato il più grande. Ma non è questo che conta, era già allora un’icona planetaria, un artista indomabile in campo e fuori. E c’erano altri campioni fortissimi, da Platini a Van Basten, da Zico a Gullit, da Socrates a Junior. Ma Maradona era speciale. Gli si chiedeva di rispondere a una domanda, ma le sue repliche non erano banali, conducevano ad altre domande. E lui rispondeva sempre, agli inviati delle tv di tutto il mondo così come ai cronisti più giovani.
L’ho visto dal vivo le prime volte alla fine dell’estate del 1981 in due amichevoli. Fiorentina-Argentina 3-5, tra i viola c’era il campione del mondo Bertoni. E poi Milan-Boca Juniors 1-2. Uno spettacolo, aveva ventun anni ed era il leader assoluto. Proprio a Firenze, dopo la partita, un giornalista che aveva un debole per Ricky Villa, all’epoca una delle stelle del Tottenham insieme con un altro grande argentino, il regista Ardiles, chiese al ct Luis Cesar Menotti perché preferisse Maradona al suo idolo. Menotti, fumando l’immancabile sigaretta, disse: “Por que’ el diez es Diego Armando Maradona!” Non aggiunse altro, bastavano nomi e cognome.
L’avvocato Agnelli lo avrebbe voluto alla Juve. Ma Boniperti era perplesso. Quando si mosse, scoprì che il Boca Juniors aveva già un accordo con il Barcellona. Più tardi, quando Platini si era già imposto tra i bianconeri dopo un avvio tormentato, non era il caso. Intanto, Maradona viaggiava verso il scudetto, il primo scudetto del Napoli, il trionfo atteso da una città che ama il calcio, undici mesi dopo aver conquistato il mondiale con un’Argentina complessivamente modesta, da lui trascinata al di là dei propri limiti. Era il 1986, la mano de Dios e il gol più bello della storia.
Maradona ha sempre sfidato l’impossibile. Ero al San Paolo nel novembre dell’85. Napoli-Juve: sotto una pioggia battente, lo 0-0 non si schioda, ad un quarto d’ora dalla fine l’arbitro Redini concede una punizione indiretta al Napoli a nove metri dalla porta. Sulla palla, Pecci e Maradona. La barriera è a tre metri, forse meno. “Diego, lascia stare, la tocco indietro per Renica che può calciare meglio, ha più spazio, non vedi?” Niente. Maradona insiste. Supplica il compagno, tra i due c’è grande sintonia. “Toccamela, ti dico, toccamela…” Renica è al limite dell’area, in attesa. Pecci cede, tocca a Diego. Dal sinistro parte una parabola inspiegabile, sorvola gli uomini piazzati davanti al tiratore e finisce la corsa tra le mani di Tacconi in volo e la traversa. E’ gol! “Sentiva che avrebbe fatto gol, questione di classe e di istinto”, disse Pecci.
Si discute periodicamente su quale sia stato il più grande calciatore di sempre. Maradona ha stregato miliardi di appassionati, con il suo calcio inventato in ogni partita, incurante degli schemi degli allenatori, dei colpi proibiti degli avversari e persino della prevenzione di qualche arbitro. Un calcio ribelle, come quello dei ragazzi del “barrio” in cui è cresciuto, perché come ha scritto Jorge Luis Borges: “La storia del football rinasce ogni volta che un bambino prende a calci un pallone”.
Quando gli chiedevano un’opinione, s’inchinava davanti ad un altro argentino immenso: “Nessuno dimentichi la grandezza di don Alfredo”. Don Alfredo era Di Stefano. Non altri, non Pelé, né Cruyff. E neppure George Best, morto nel suo stesso giorno, il 25 novembre. Come Best, non ha saputo proteggersi, ha aggredito la vita, ha rischiato più volte di perderla, l’ha riacciuffata, senza mai fermarsi. Resta la sua leggenda, ed è un patrimonio che appartiene all’umanità. Descanse en paz.
Tags: Diego Armando Maradona, Maradona

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Nota sull’autore: Enzo D'Orsi

Classe 1953, per ventun anni al Corriere dello Sport, capo della redazione torinese e inviato. Quattro Mondiali, cinque Europei, migliaia di partite di tutte le competizioni, dai dilettanti alla Champions league. Ha lavorato anche a Paese Sera e Leggo, nonché al settimanale Rigore. Ha collaborato con numerose pubblicazioni, anche straniere: in particolare, l'Equipe e France football. Dai tempi di Bobby Charlton, simpatizza per il Manchester United. E' convinto che il più grande calciatore di ogni epoca sia stato Alfredo Di Stefano, non Maradona e forse neppure Pelé. Adora il calcio inglese, l'Umbria e Parigi, non sempre in questo ordine. Sposato con Maria Paola, medico, ha tre figli e cinque nipoti. Si considera per questo molto fortunato. Fin da ragazzino, sognava solo di fare il giornalista. Tre libri per Edizioni InContropiede: “Gli undici giorni del Trap” (2018), “Non era champagne” (2019) e “Michel et Zibi” (2020). Non ama i social, ad eccezione di Twitter: @Edorsi53.

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