Insieme alla divina Masha se ne va anche una parte di noi, della nostra vita, dei nostri sogni, non solo del nostro tennis. Perché Maria Sharapova, che quasi 33enne ammaina definitivamente la bandiera dell’agonismo ufficializzando qualcosa che sia lei che noi tutti sapevamo ormai da quattro anni, ci accompagna fedele da sedici stagioni, identificandosi più di qualsiasi altra tennista nell’immagine di atleta donna: bella nel senso tradizionale, ma anche bella perché forte di fisico e di carattere, sicura, altera, orgogliosa, caparbia, ingestibile.
La Sharapova è stata la risposta al femminile del guerriero per eccellenza, Rafa Nadal; è stata quella che non si batteva da sola, quella che, fino alla stretta di mano definitiva, poteva sempre trovare l’ultimo guizzo e rovesciare qualsiasi situazione, quella che avvertivi, in campo, come personalità, e valeva sempre il prezzo del biglietto.
Quella che ha incrementato il suo mito al di là del computo numerico dei cinque trionfi Slam che spiccano fra i 36 titoli WTA perché, semplicemente, ha fatto e vinto tutto, spesso prima di tutte le altre, dall’urrà a Wimbledon ad appena 17 anni (sorprendendo Serena Williams e il mondo intero), alla scalata e poi ai ritorni al numero 1 del mondo, attraversando più generazioni.
Come Rafa, l’algida siberiana ha ribadito giorno dopo giorno, partita dopo partita, lo smisurato amore per lo sport, per la gara, per la sfida con se stessa e l’avversario ma, soprattutto, con l’allenamento, attraverso il quale misurarsi e migliorarsi di continuo, ripartendo sempre da zero, come recita la regola numero 1 del tennis e dello sport.
Senza mai scivolare nella pigrizia o nell’autocompiacimento che sarebbero venuti a chiunque guardando gli oltre 38 milioni di dollari di premi vinti nei tornei, cifra che va serenamente moltiplicata per dieci, considerando sponsor ed indotto.
Cifra inimmaginabile per l’impaurita bambina di 7 anni che, nel 1994, sbarcò nella terra promessa senza spiccicare una parola d’inglese, mano nella mano col burbero papà Yuri, motivatissimo dagli appena 700 dollari di dote stretti in tasca.
Come Rafa, anche la coda di cavallo bionda più famosa del tennis ha superato più terrificanti operazioni, peraltro alla spalla, sopportando dolore ed amarezze, ricadute e ripartenze, senza mai citare quell’evidente handicap come scusa delle sconfitte e del continuo declassamento. Masha, come l’hanno sempre chiamata in Russia e in famiglia, è stata l’apripista di un mondo a parte, quello disgregato dell’ex Unione Sovietica, fatto di meravigliose, atletiche, ragazze rubate ad altri sport dal dio dollaro del tennis. E’ stata il simbolo del famoso “uno su mille ce la fa”, è stata l’esempio di volontà ad abnegazione ma, soprattutto di intelligenza.
Ecco, intelligenza. Questa, insieme all’estrema durezza, è stata sempre la caratteristica di Maria Sharapova mentre percorreva chilometri su chilometri, correndo per i tornei di tutto il mondo imbracciando una racchetta. Gemendo. Attenzione, di certo non lamentandosi, davvero non piagnucolando, non soffrendo veramente, ma tirando fuori sempre l’anima, colpo dopo colpo, dandosi tutta dal profondo, nella ricerca spasmodica della soluzione per scardinare la difesa avversaria. Emblema del tennista ideale che trova da sola la chiave per la vittoria senza bisogno del suggeritore in campo.
Emblema, nel stesso tempo, della donna nuova che si stava plasmando nella società moderna, quindi, libera, forte, difficile, intransigente, più brava di qualsiasi collega uomo a ritagliarsi un ruolo e un mercato anche extra-tennis. Fino al punto di identificarsi in una caramella, in una giovane donna elegante, ricca di interessi, che non deve chiedere mai. Figurarsi a un uomo. Non si è spezzata mai, Maria Sharapova, ma si è piegata. Sportivamente parlando, si è inchinata davanti alla sua nemesi, Serena Williams, contro la quale ha collezionato appena 2 successi contro 22 sconfitte, fra cui spicca il 6-0 6-1 dell’Olimpiade 2012.
E ed è passata attraverso la celebre conferenza stampa, nel giugno 2016 quando fu squalificata per doping – il famigerato Meldonium, coperta di Linus di tantissimi atleti russi – due anni poi ridotti a 15 mesi, una spallata violenta alla sua credibilità sportiva.
Ma si è sempre rialzata, davanti alle critiche delle colleghe che non volevano fosse agevolata da wild card e davanti al mondo tutto, quando, nello Slam del rientro, agli Us Open 2017, superò la numero 2 del mondo, Simona Halep, come un’eroina dei Comix o un angelo vendicatore o comunque la super-star che si riprende la ribalta, nel suo abitino nero trapunto di paillettes di Swarowski.
Un completino che poteva vestire solo lei. Unico come la sola walkiria dell’universo tennis che abbia concluso la sua corsa senza un’amica, memore dell’allenamento a luci spente nella camerata della Nick Bollettieri Academy quand’era bullizzata dalle più grandi. Ora portatela nelle scuole a spiegare ai ragazzi come si diventa Maria Sharapova. Campionessa sempre.
*Articolo ripreso da supertennis.tv