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Calcio, Full Time

Correa, l’eterno ritorno delle ali

Da Enzo D'Orsi 28/04/2021

Nonostante tutte le rivoluzioni, il ruolo è decisivo per il successo di ogni squadra. Che si tratti di terzini-ali come Hakimi, Cuadrado e T. Hernandez, o che si tratti di seconde punte-ali come il laziale, sono la velocità, il dribbling e il tiro a fare la differenza

La splendida esibizione dell’argentino Joaquin Correa contro il Milan – l’avversario contro il quale si esalta puntualmente, che si tratti del campionato o della coppa Italia – ripropone la necessità per ogni squadra di avere ali veloci, in grado di ribaltare il gioco e arrivare alla conclusione. Ora, Correa è più una seconda punta che un’ala pura, ma non c’è dubbio che risponda pienamente ai requisiti richiesti. In più, per gli argentini il fùtbol è una sfida continua, il dribbling la maniera migliore per dimostrare i loro valore, insomma, vinto il primo dribbling, volano leggeri verso la porta. Correa, senza essere un fuoriclasse, è il partner ideale per un contropiedista come Immobile, la cui peculiarità è quella di catapultarsi negli spazi disponibili.
Nonostante tutte le rivoluzioni, il peso degli esterni è sempre determinante: possono essere terzini-ali, come Hakimi, Cuadrado e Theo Hernandez, oppure seconde punte-ali come Correa, Leao e Chiesa, resta il fatto che nessun allenatore può farne a meno.
In Italia, le grandi ali sembravano appartenere al passato, ai gloriosi anni Sessanta, quando in serie A c’erano fenomeni sulle fasce come Mora e Cucchiaroni, Danova e Perani, Menichelli e Barison, poi arrivarono gli anni Settanta segnati dal dualismo tra Causio e Claudio Sala, fino agli anni Ottanta dominati da Bruno Conti, campione del mondo dopo aver strappato il posto proprio a Causio. Da allora, il calcio è cambiato e per un periodo si è creduto di poter rinunciare alla qualità privilegiando i terzini di spinta per avere più solidità in mezzo al campo. Un errore costato caro. Non si può fare a meno della fantasia nel calcio. Anzi, più sale il livello delle competizioni, più la fantasia è necessaria.
In quegli stessi anni, Cruyff alla guida del suo magnifico Barcellona puntava tutto sul gioco dei laterali, e quando la squadra era in difficoltà ne aggiungeva altri. “Se non riusciamo a sfondare, dobbiamo allargare il gioco, per farlo abbiamo bisogno delle ali, anche due su un lato e due sull’altro. Attraverso le loro triangolazioni, staniamo i difensori avversari e costruiamo le premesse per arrivare in zona gol con i centrocampisti. Attacchiamo anche con otto uomini, ci esponiamo a qualche rischio, è vero, ma perdere 1-2 oppure 1-3 è la stessa cosa. Se invece pareggiamo, prendiamo il sopravvento, è così che abbiamo ribaltato decine di volte partite che sembravano compromesse”.
E’ possibile che Cruyff abbia in qualche caso esagerato, ma è innegabile che tutte le squadre migliori siano alla ricerca di grandi interpreti del ruolo. Il Bayern, per esempio, preferisce le ali a piede invertito: il mancino a destra, il destro a sinistra. In questo modo, accentrandosi possono sfruttare meglio il tiro. Sané e Gnabry sono gli eredi di Robben e Ribèry. Lo stesso vale per il Sassuolo con Berardi e Boga, ammesso che Berardi – il talento più lucente del nostro calcio, insieme con lo sfortunato Zaniolo – possa essere considerato soltanto un’ala.
Se passiamo all nazionale italiana, va ricordato che per sostenere il centrocampo con un trequartista (Rivera) e due punte (Anastasi e Riva, per esempio), Valcareggi impiegava la cosiddetta ala tornante, che era Domenghini, dotato di un dinamismo eccezionale, buon dribbling e tiro fulminante. Il suo scarificio tattico portò gli azzurri all’unico trionfo europeo nel 1968 e alla finale mondiale in Messico contro un Brasile ingiocabile. Bearzot imitò Valcareggi, con Causio e poi Bruno Conti. Fu Sacchi a cambiare tutto: sul modello del suo Milan, rinunciò al trequartista schierando Baggio come seconda punta, e puntò sulle coppie di esterni che si alternavano, come Tassotti e Colombo a destra, Evani e Donadoni a sinistra. Con questo schema, il miglior cannoniere di allora, il laziale Signori, finiva per giocare sull’out, molto lontano dalla porta.
Resta una certezza: senza le ali, non si vola. E sia ringraziato Correa per averlo ricordato a tutti con le sue accelerazioni e i suoi gol che hanno travolto il Milan.

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Nota sull’autore: Enzo D'Orsi

Classe 1953, per ventun anni al Corriere dello Sport, capo della redazione torinese e inviato. Quattro Mondiali, cinque Europei, migliaia di partite di tutte le competizioni, dai dilettanti alla Champions league. Ha lavorato anche a Paese Sera e Leggo, nonché al settimanale Rigore. Ha collaborato con numerose pubblicazioni, anche straniere: in particolare, l'Equipe e France football. Dai tempi di Bobby Charlton, simpatizza per il Manchester United. E' convinto che il più grande calciatore di ogni epoca sia stato Alfredo Di Stefano, non Maradona e forse neppure Pelé. Adora il calcio inglese, l'Umbria e Parigi, non sempre in questo ordine. Sposato con Maria Paola, medico, ha tre figli e cinque nipoti. Si considera per questo molto fortunato. Fin da ragazzino, sognava solo di fare il giornalista. Tre libri per Edizioni InContropiede: “Gli undici giorni del Trap” (2018), “Non era champagne” (2019) e “Michel et Zibi” (2020). Non ama i social, ad eccezione di Twitter: @Edorsi53.

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