La finale di Coppa Davis a Lille contro la Croazia riapre la grande ferita del tennis francese ed acuisce la sofferenza dell’orgogliosissima e spavalda “grandeur” dei cugini transalpini. Che, a dispetto della cassaforte Roland Garros, non riescono a produrre autentici numeri 1 dai tempi di Yannick Noah, l’ultimo campione Slam dei Bleus da Parigi 1983. E perciò sono ancora prigionieri dei mitici Moschettieri, cioé Cochet, Lacoste, Borotra, Brugnon, protagonisti di 20 Slam di singolare e 23 di doppio, e soprattutto dello storico ratto della Davis del 1927 a Filadelfia, direttamente dalle mani di Bill Tilden. Dopo il grande moro Noah, di papà camerunese ex calciatore e mamma francese, la scuola francese ha partorito tante promesse, e tanti mezzi campioni, da Leconte a Forget, da Pioline a Gasquet, da Santoro a Grosjean, da Clement ad Escude, da Boetsch a Champion, da Benneteau a Mahut, da Mathieu a Monfils, Simon, Tsonga, Chardy, Mannarino, Paire, Herbert, Pouille. Tutti, tanti, giocatori più o meno forti, ma tutti imperfetti, tutti incompiuti: chi per mancanza di cuore, chi di personalità, chi di tecnica, chi di fisico. Che, messi insieme, non fanno il fuoriclasse, l’asso, il punto d’orgoglio e di riferimento, il trascinatore delle folle.
Quest’assenza si rispecchia nella classifica mondiale, dove la Francia presenta oggi sei giocatori fra i primi 50 del mondo e nove nei primi 100, ma nessuno fra i “top 20”, lì dove invece l’Italia sbandiera Fognini e Cecchinato. Si nota negli Slam dove, invecchiando quelli che sono stati pomposamente etichettati come i “nuovi Moschettieri” – Gasquet, Monfils, Simon e Tsonga -, quest’anno la nazione che ospita il Roland Garros non ha piantato alcuna bandierina. E si nota in modo ben evidente in quest’ultima finale di Davis con formula tradizionale, peraltro da campioni uscenti, ma contro una nazione ben più forte del Belgio di dodici mesi fa, come la Croazia dei singolaristi Cilic e Coric e del doppio Dodig-Pavic.
Perché quello che manca ai padroni di casa, nel gigantesco stadio Pierre Mauroy di Lille riempito a tempo record di terra rossa, è proprio un gigante, un Pantagruel, un autentico numero 1, un campione carismatico, com’era Noah. Che non basta, in panchina, da capitano non giocatore, a dispetto delle diavolerie di cui fa sfoggio ogni volta, mischiando le carte, mescolando le gerarchie, invertendo l’ordine dei fattori, rispolverando l’uno per caricare l’altro, stimolando quello per ritemprare questo, litigando e rappacificando, unendo e disgregando, prendendosi sempre e comunque tutte le responsabilità. Da capitano di tre trionfi, più l’unico in Fed Cup, che non conta ma ribadisce di essere ancora, dopo quarant’anni, l’asse portante del tennis francese. Yannick è il padre putativo di Tsonga, come lui atletico, di papà africano, bello e dal gioco offensivo e spumeggiante, che rilancia (dopo sette mesi fuorigioco per l’ennesima operazione chirurgica alle ginocchia). Ed è anche il padre putativo di Pouille, che boccia nella prima giornata di Lille (dopo averlo aiutato, psicologicamente, ad esplodere, due anni fa). Ed è proprio stuzzicando l’orgoglio dei suoi due “quasi-numeri 1” che ha cercato il jolly per sgambettare i favoriti croati. Rischiando, come sempre.
Chissà poi che, accantonata la storia-Davis, Noah non ci metta lo zampino anche nel futuro del tennis francese, il 19enne mancino Corentin Moutet.