C’è chi dice che per diventare dei discesisti non bisogna essere normali. Nell’embrione, durante le prime fasi dell’evoluzione succede qualcosa per cui si inattiva il gene dell’autoconservazione. Perché, dove un qualsiasi essere umano tende a frenare loro accelerano, attirati da una misteriosa calamita. E cosa sia questa calamita è oggetto di studio da tempo. Il vento in faccia, il peso della gravità che si minimizza mentre altre forze, soprattutto centrifughe, ti attirano in baratri bui. Pochi fra loro sono sani. Ginocchia, colonna vertebrale, anche, dopo qualche anno o qualche volo cominciano ad urlare. Eppure la velocità per questi uomini è come una droga, l’unica capace di accendere un sorriso, di illuminare gli occhi, di aprire il cuore.
L’Italia ne ha visti tanti passare. Dall’appenninico Zeno Colò, a Sertorelli e Coppi, a Varallo, Anzi e Besson, a Plank, Mair, Ghedina, Runggaldier, Perathoner. Ma ora vive un’epoca d’oro con due campioni esperti come Dominik Paris e ChristofInnerhofer. Potrebbero essere tre se gli acciacchi di un età ormai vicino agli “anta” non avessero bloccato Peter Fill. I giovani alle loro spalle crescono, ma non abbastanza. Ma la discesa è disciplina difficile. Non basta essere incoscienti per affrontare queste picchiate. Sono necessari una tecnica sopraffina per percorrere curve a 120 km/h, la forza di un toro per dominare sci rapidi come serpenti e tanta, tanta esperienza. Un bagaglio che si costruisce in anni, passando e ripassando sulle piste mitiche del circuito di Coppa del Mondo, conoscendone le pendenze, le buche, la luce.
Paris e Innerhofer hanno battuto il mondo sulla pista Stelvio di Bormio, non una pista a caso. Perché la Stelvio, possiamo dirlo senza paura, per la discesa è la più difficile e paurosa pista del mondo. Meglio di Kitzbuehel, Wengen, la statunitense Beaver Creek. Perché? Semplice: quella di Bormio è l’unica pista dove la velocità non si cerca, vince chi si difende meno da essa. Perché in 3200 metri si scende di 1005 metri di altitudine in meno di due minuti con una velocità media superiore ai 100 km/h. Altro che Hitchcook. Vincere qui significa essere i migliori. Senza discussioni.
Domme, come lo chiamano gli amici, e Inner hanno caratteri diversi e filosofie diverse che puntano allo stesso obiettivo. Paris è il talento puro. Di lui una vecchia volpe come il norvegese AkselSvindal disse otto anni fa: “E’ il più forte di tutti. Quando se ne accorge ci stira in ogni gara”. Piedi da fata, forza di un toro, tecnica cresciuta negli anni a cui si aggiunge l’innata capacità di fare scorrere gli sci alla Ghedina. Un talento che dieci anni fa rischiava di annegare in troppe birre con gli amici di una compagnia sbagliata. Papà per raddrizzarlo non usò mezze misure: lo spedì lontano dalla sua val d’Ultimo, oltre i 2000 metri sul passo dello Spluga a curare le mucche. Orari da caserma, cacca da spalare a chili e fieno, mungiture ed ettolitri di latte da portare a valle. Funzionò. Quando apparve sulla scena, 10 anni fa, faticava a parlare l’italiano ma senza mai far mancare l’ironia.
Diverso Innerhofer. Più comunicativo, ciarliero, mondano. Armani lo ha voluto come modello, si interessa di borsa ed economia. Ma sulla neve per anni è stato un incubo. Perché dei grandi campioni della passata generazione non ne perdonava uno. Al vari Bode Miller, Hermann Maier e Michael Walchhoferdurante le ricognizioni delle discese si avvicinava per discutere su ogni passaggio, per carpire i loro segreti. Pignolo sino all’inverosimile, studia ogni discesa come fosse una tesi di laurea. Non ha la potenza di Paris, ma ha affinato uno stile unico, sensibilissimo che l’ha fatto diventare un esteta di questa disciplina. Dopo lo sci avrà un futuro certo.
Paris e Innerhofer la vittoria la inseguono per strade diverse, ma ambedue le loro scelte pagano. Sono in concorrenza, ma senza colpi bassi e questa concorrenza fa gonfiare il petto all’Italia.