E’ il modo più economico per accorciare l’inverno, riscaldare l’ambiente e collezionare cucchiai di legno. E’ la scusa più convincente per assentarsi da casa, organizzare rimpatriate anche all’estero e giurare che il mondo è ovale. E’ lo stratagemma più collaudato per elevare non solo inni e canti, ma anche colesterolo e trigliceridi.
Torna il Sei Nazioni, una delle rare certezze della vita. Edizione numero 20 della storia (ma la numero 125 considerando il Championship dalla sua ufficiosa nascita nel 1883), dal 1° febbraio al 16 marzo (cinque finesettimana), con Irlanda (seconda nella graduatoria mondiale dietro alla Nuova Zelanda), Galles (terza), Inghilterra (quarta), Scozia (settima), Francia (nona) e Italia (quindicesima). Torna il Sei Nazioni con i suoi templi (Twickenham a Londra, Murrayfield a Edimburgo, i più recenti Aviva a Dublino, Millennium a Cardiff, Stade de France a Parigi e l’Olimpico a Roma), con i suoi trofei (la Calcutta Cup tra Inghilterra e Scozia, il Millennium Trophy tra Inghilterra e Irlanda, il CentenaryQuaich tra Irlanda e Scozia, il Trofeo Giuseppe Garibaldi tra Italia e Francia, l’Auld Alliance Trophy tra Scozia e Francia, la Triple Crown fra le britanniche a condizione che le vinca tutte), con il suo paradiso (il Grande Slam per chi le vince tutte), il suo purgatorio (il Cucchiaio di legno per l’ultimo) e il suo inferno (il White Wash per chi le perde tutte).
Torna il Sei Nazioni con le sue leggende, a cominciare proprio dal cucchiaio. Idea di William Bolton, trequarti ala dell’Inghilterra, nel 1884, e quell’anno la luttuosa stoviglia, acquistata in Svizzera, toccò all’Irlanda. Nel 1904 il cucchiaio, misteriosamente, scomparve. Si narra che sia custodito in un castello delle isole Orcadi, a nord della Scozia. Ma di diritto sembra appartenere all’Italia, che finora ha conquistato 13 titoli, anzi sottotitoli, essendo negativi, di cui otto con le caselle vittorie e pareggi immacolate.
Torna il Sei Nazioni con i suoi eroi, da Jean-Pierre Rives, il terza ala della Francia che ficcava la testa dove gli altri non osavano mettere i piedi, a Jason Leonard, il pilone dell’Inghilterra che sosteneva di allenarsi correndo da un pub all’altro, da Gareth Edwards, il mediano di mischia del Galles autore della metà giudicata più bella nella storia del rugby (nei Barbarians, una supersquadra mondiale a inviti, contro gli All Blacks), a Brian O’Driscoll, il trequarti centro dell’Irlanda elevato a divinità (“In Bod wetrust”). L’Italia può vivere di pochi memorabili entusiasmi. Certo, la prima fu di una felicità travolgente: esordio nel torneo e vittoria con i campioni uscenti della Scozia, alFlaminio, data 5 febbraio 2000, punteggio 34-20, una meta del pilone Ciccio De Carli, una trasformazione, sei calci e tre drop del mediano di apertura Diego Dominguez, dotato di un piede d’oro.
Paradossalmente, invece di avvicinarci, questi 20 anni ci hanno allontanato dalle cinque nazioni (il torneo si chiamava così prima del nostro ingresso). La Federazione ha investito molto sulla prima squadra, sperando di godere di un effetto a cascata, dall’alto verso il basso. Ma non è andata così. I club continuano a faticare, per sopravvivere talvolta si sono uniti perdendo di identità, le accademie federali non sono riuscite a garantire il salto di qualità che gli investimenti esigevano, le due franchigie che giocano nel campionato europeo della Celtic League si reggono su giocatori stranieri, e contemporaneamente il campionato italiano è decaduto. Rare le vittorieinternazionali. Rari anche i nuovi giocatori di quella prima classe. Il c.t. della nazionale italiana, l’irlandese Conor O’Shea, affronta le stesse difficoltà dei suoi predecessori. E ha straragione quando premette che questo sarà il Sei Nazioni del livello più alto nella storia. Si riferisce soprattutto alle britanniche. Quanto agli azzurri, difficilissimo perfino sperare in una vittoria. L’esordio sabato, a Murrayfield, contro la Scozia.
Meglio andrà alle nostre donne e ai nostri under 20. Briciole, coriandoli, mezze pinte.