L’azione cominciò al 77’30” con un calcio dai propri 22 metri, cioè dal limite della propria area. Sabato 3 febbraio 2018, allo Stade de France di Saint-Denis, a Parigi, 74878 spettatori paganti più qualche decina di milioni collegati via tv o computer nel mondo: la Francia conduceva 13-12 sull’Irlanda nel turno che inaugurava il Sei Nazioni, e l’Irlanda aveva due minuti e mezzo per segnare con una meta, un calcio o un drop, ribaltare il punteggio e vincere la partita. Due minuti e mezzo alla fine degli 80 effettivi, più tutto il tempo prima che il gioco fosse tradito da un’infrazione delle regole o spezzato dal pallone finito fuori dal campo.
Con forza e pazienza, con determinazione e attenzione, con una certa ansia e – per quanto sia mai possibile su un campo da rugby – la dovuta prudenza, l’Irlanda conquistò il pallone spiovuto dal calcio dai suoi 22, e iniziò a ruminare, mulinare, frullare, centrifugare il suo gioco di attacco, senza mai interrompere l’azione per colpa propria o merito francese. Quando finalmente aveva varcato la linea di metà campo, il cronometro aveva superato il confine degli 80 minuti regolamentari e si spingeva in quella terra di nessuno, e di tutti, che è l’ultima azione. Finché, dopo raggruppamenti e penetrazioni, dopo aperture a destra e a sinistra, dopo inserimenti e incroci, dopo passaggi e raddoppi, dopo rientri e riposizionamenti, dopo finte e avanzamenti, dopo sostegni e sfondamenti, dopo addirittura un azzardato calcetto sull’ala, dopo un record di 41 fasi, al minuto 82’37” Conor Murray, il mediano di mischia irlandese, passò l’ovale a Johnny Sexton, il mediano di apertura dei verdi, sistemato verticalmente dietro di lui, dunque protetto da eventuali intercetti dei Bleus. E Sexton eseguì: al minuto 82’38” il drop, che è un calcio di rimbalzo, al minuto 82’39” il pallone decollò, al minuto 82’40” volò, al minuto 82’41” veleggiò, al minuto 82’42” si infilò fra i due pali e sopra la traversa, al minuto 82’43” atterrò. Contemporaneamente l’arbitro, il gallese Nigel Owens, fischiò per convalidare la prodezza di Sexton e la coclusione della partita. Risultato: Francia-Irlanda 13-15.
L’Irlanda che tre mesi prima, a Chicago, aveva sconfitto la Nuova Zelanda (i magici All Blacks) per la prima volta nella storia, l’Irlanda che avrebbe poi vinto quel Sei Nazioni del 2018 con il Grande Slam (cinque partite, cinque vittorie), l’Irlanda che la scorsa estate ha sconfitto l’Australia in Australia 2-1 nella serie dei test-match (e quello finale vinto 20-16), e che oggi è al secondo posto nella graduatoria mondiale dietro agli All Blacks. L’Irlanda che sabato 3 novembre affronterà l’Italia ancora a Chicago, nel primo degli incontri internazionali di novembre.
Nell’era omerica del rugby, si recitava come gli inglesi giocassero a rugby perché lo avevano inventato; gli irlandesi perché odiavano gli inglesi e adoravano le risse; gli scozzesi perché erano i nemici storici degli inglesi; e si aggiungeva come i gallesi avessero un vantaggio su tutti gli altri, perché ogni gallese era nato su un campo da rugby, o vi era stato concepito. Oggi le cose sono cambiate: è sempre vera la nascita del gioco in Inghilterra, così come sono sempre valide l’avversione storica tra scozzesi e inglesi, la nascita o il concepimento dei gallesi su un campo da rugby, nonché l’odio degli irlandesi verso gli inglesi e l’adorazione degli irlandesi per le risse. Ma c’è qualcosa in più: la straordinaria organizzazione degli irlandesi nel rugby. Nel piano quinquennale delle strategie per lo sviluppo del gioco, l’Irfu, la Federazione irlandese di rugby, ha posto i seguenti obiettivi: per gli uomini, almeno le semifinali nella Coppa del Mondo del 2019 e del 2023, due o più titoli nel Sei Nazioni, due o più titoli nelle coppe europee, due o più titoli nel campionato Pro14, la qualificazione della Nazionale a sette per l’Olimpiade del 2020, il raggiungimento delle World Series per la Nazionale a sette; e per le donne: la qualificazione e un posto fra le prime sei nella Coppa del mondo 2021, un titolo nel Sei Nazioni (o comunque un posto fra le prime tre), la qualificazione della Nazionale a sette all’Olimpiade del 2020, la qualificazione della Nazionale a sette alla Coppa del mondo 2022, un costante posto fra le prime sei nelle Worlds Series per la Nazionale a sette, un costante posto fra le prime due nell’Europeo per le Under 18.
E per conquistare questi obiettivi, l’Irfu si prefigge di arrivare a 210mila giocatori fra gli uomini (e 5mila fra le donne) e a 1900 squadre seniores (e 300 o più fra le donne), al 90 per cento di allenatori accreditati (e a 450 allenatrici), al 95 per cento delle partite dirette da arbitri delle proprie sezioni… Per capirsi, secondo uno studio non recentissimo (2015), ma comunque illuminante, In Irlanda il rapporto tra tesserati e popolazione è quasi del 4 per cento, che si traduce in una media di 10 squadre ogni 5mila abitanti, in Galles il rapporto è del 2 per cento e in Scozia dell’1,97. Invece in Italia il dato si riduce allo 0,128 per cento e a una squadra ogni 20mila abitanti. E in questi tre ultimi anni, almeno in Italia, la situazione non è migliorata in modo significativo, anzi, la sensazione è che “il tram” sia passato senza essere riusciti a salirci.
La coscienza della propria forza, la consapevolezza della propria solidità e la fede nelle proprie scelte sono così alte, nel rugby irlandese, che sull’attuale commissario tecnico, Joe Schmidt, in scadenza di contratto dopo la Coppa del Mondo del 2019, Philip Browne, amministratore delegato dell’Irfu, ha detto: “Se vuole continuare, bene.
Ma se vuole andarsene, le nostre strutture sono in grado di assorbire la sua mancanza”. Poi ha sentenziato: “La realtà è che nessuno può essere indispensabile”. E spiegato: “La realtà è che non si può fondare un piano su una sola persona, ma deve essere costruito su sistemi, processi e strutture”. Dalle scuole alle accademie, dai club alle nazionali, partendo dalla base e non dal vertice, come invece – da anni, almeno da quando è entrata allargando il Cinque Nazioni a Sei – sta facendo l’Italia. Con risultati che non esigono interpretazioni. “Non siamo soddisfatti di dove siamo”, è il mantra di Browne e del XV del trifoglio. Pensando al 3 novembre, per gli azzurri sarebbe inutile, anzi, dannoso sperare in uno sconto.