Se ne va uno dei difensori più forti e corretti del nostro calcio, un simbolo dell'Italia difensivista. Scaricato dal club nerazzurro, chiuse la carriera nel Napoli di Vinicio sfiorando lo scudetto. I suoi eredi sono stati Gentile e Vierchowod
In questi casi, si dice che ne se va un pezzo di noi. Ed è vero: se ne va un pezzo di noi che ci siamo innamorati del calcio recitando a memoria le formazioni, scoprendo i colori delle maglie, colori che erano sacri, il piacere di andare allo stadio, di conoscere dopo, attraverso le radioline, i risultati delle altre partite. Un altro mondo. Non è sicuro che fosse migliore. Era semplicemente un altro. E allora quei nomi risuonavano familiari. Un mio zio mi tormentava con i suoi ricordi del Grande Torino, partiva da Bacigalupo Ballarin Maroso per arrivare trionfalmente a Gabetto Mazzola (Valentino) Ossola. E la Fiorentina di Sarti Magnini Cervato, per esempio, oppure la Grande Inter, Sarti Burgnich Facchetti. La Grande Inter euromondiale degli anni Sessanta, gli anni del boom economico e di Milano capitale del football italiano, gli anni di Helenio Herrera e Nereo Rocco, di Mazzola (Sandro, il figlio di) e Rivera, di Burgnich e Anquilletti.
Ecco, la morte di Tarcisio Burgnich, che dello squadrone nerazzurro fu la roccia indiscussa, colui che marcava rigorosamente a uomo Gigi Riva, rimanda a quell’epoca di formidabili difensori, una categoria della quale l’interista era uno degli esponenti migliori, insieme con il milanista Rosato. Uomini duri e leali, capaci di annullare gli avversari più temuti con un controllo feroce, dall’uscita al ritorno negli spogliatoi. In quel calcio antico, tutte le squadre giocavano a uomo, a tutto campo: prevaleva di solito chi riusciva ad aggiudicarsi il maggior numero di duelli. Ma soprattutto chi riusciva a vincere i duelli decisivi: per esempio, ridurre al minimo il potere di Riva significava togliere al Cagliari ogni possibilità di successo.
Burgnich aveva una dedizione assoluta. Somigliava al suo amico Zoff, friulano come lui: studiava l’attaccante da seguire, aveva una capacità di concentrazione enorme, una serietà nell’applicazione che gli invidiavano tutti, una correttezza unanimemente riconosciuta. Ma aveva anche piedi discreti, cosicché, una volta anticipato il rivale, giocava la palla in maniera pulita. Ed è proprio questa qualità, nascosta dal ruolo che gli precludeva scorribande in zona gol, che rivelò al mondo nella partita del secolo, Italia-Germania quattro a tre, cinquantun anni fa. Nei supplementari, dopo che Muller aveva portato in vantaggio i tedeschi e nessuno immaginava che gli azzurri potessero sopravvivere ad un destino segnato, Burgnich abbandonò le retrovie e si fece trovare – mentre tutti lo guardavano increduli – in area sugli sviluppi di un calcio di punizione. C’era un pallone vagante, dopo un colpo di testa di Riva, Burgnich lo arpionò e poi con un tocco di sinistro lo spedì alle spalle del portiere Maier. Lo fece con la naturalezza di un centravanti. Fu il 2-2 che innescò la successiva girandola di gol ed emozioni.
Una volta, qualche anno fa, dopo un’onesta carriera da allenatore – con qualche bella soddisfazione anche in serie A, alla guida del Catanzaro – Burgnich confessò che, in fondo, anche a lui che era considerato un simbolo del calcio difensivista, sarebbe piaciuto giocare oggi. “Noi difensori ci autolimitavamo, ma probabilmente saremmo stati capaci di giocare in maniera più brillante, e magari avremmo saputo partecipare al gioco com’è diventato necessario con il passare degli anni”. Scaricato dall’Inter, accettò il trasferimento al Napoli. Sfiorò nel 1975 lo scudetto. Vinicio lo reinventò libero nella zona di quella squadra sfrontata: “E devo dire che non mi sono mai divertito così, era un Napoli bellissimoo”, disse Burgnich. La sua grandezza è testimoniata da un dato: in pochi hanno saputo raccogliere la sua eredità, forse per qualità, determinazione, forza nel tackle e bravura nell’anticipo, soltanto Claudio Gentile e Pietro Vierchowod meritano di essergli accostati.
Enzo D’Orsi (foto tratta da Repubblica.it)