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Sport

Nel nome del padre, del cricket e del Corano. Storia di Usman Qadir, figlio del mitico Abdul

Da Vincenzo Martucci 27/11/2018

Il figlio dell'ex bowler pakistano emigra in Australia e punta a rappresentare la sua nuova "casa" alla Coppa del Mondo del 2020.

Padri e figli. La solita vecchia storia si ripete anche nello sport. I casi sono tanti, a partire dal nostro amatissimo calcio, da Zidane a Cruijff, dai Mazzola ai Maldini. Nel basket sono anche clamorosi, come Gallinari figlio che, da giocatore Nba, supera ampiamente il padre, settimo uomo della grande Milano anni 80. Anche se in genere succede più spesso che il genitore schiacci il pargolo, con la sua personalità, la sua storia, le sue vittorie.

Stavolta, forse anche col suo troppo amore, scatenando l’unica reazione possibile: la fuga. Così è questa favola dal sapore orientale, che parte dal Pakistan e arriva in Australia. Parte dal mitico Abdul Qadir e arriva ad Hafiz Husman Qadir. Papà è classe ’55, di Lahore, è stato un “leg spin bowler” di primissimo livello, un super lanciatore che sapeva imprimere alla palla un effetto particolare da sinistra a destra, facendola diventare una saponetta per l’avversario. E’ fra gli immortali del suo sport, con 67 test e a 104 ODI, le sfide internazionali di un giorno, con cinque presenze da capitano, fra il ’77  e il ’93.

La storia di Usman

Il figlio, 25 anni, è un battitore mancino, non ha certamente i numeri del padre, né si avvicina al famoso zio, Umar Akmal, però è un gran bel ragazzo e ha sposato Sobia Khan, nota attrice del Pashto cinema, Pollywood. Soprattutto, Usman non è voluto restare nell’ombra del padre. La sua è la classica storia di un ragazzo col genitore Vip terribilmente assente, il cucciolo della famiglia, che un giorno si è visto negare la nazionale pakistana dal proprio padre per evitare accuse di nepotismo, che ha rotto i ponti con la famiglia e la patria, che ha dovuto attendere a lungo prima che il padre desse la benedizione alle sue nozze, che ha finalmente ricevuto il permesso di coronare il sogno di giocare per una nuova bandiera, l’Australia. “Ma io credo che nel profondo del suo cuore, papà abbia sempre avuto i miei migliori interessi, ed oggi è orgoglioso più che mai di me”.

Il cammino è stato lungo e tortuoso, soprattutto in un paese dalle tradizioni così forti come il Pakistan: “Papà era una superstar, doveva fermarsi a parla con la gente, firmare autografi, posare per le foto, e non potevamo fare le cose che la maggior parte delle famiglie può fare. Cercava di ottimizzare il tempo che passava a casa, io, intanto i miei fratelli ed io giocavamo tutti a cricket, ce l’avevamo nel sangue, io finivo scuola alle 4.30 e poi correvo all’accademia di papà per allenarmi dalle 9 di sera ero già a letto, distrutto. Ero molto ambizioso, e provai la selezione della nazionale under 15. Papà si oppose: “Non sei ancora pronto e non puoi andare”. Non lo ascoltai, partecipai e fui scelto”.

Quanti figli disobbediscono tutti i giorni ai loro padri? Quanti si stupiscono della sua reazione, e rimangono estasiati vedendo che, invece di arrabbiarsi, quelli si tuffano insieme a loro nella nuova avventura? Successe anche ai Qadir. Abdul passò tutta la serata a spiegare a Usman come colpire la palla: “La tua carriera comincia ora”. Ma per il ragazzo fu subito difficilissimo: nessuno notava i suoi progressi, il suo stile, il suo impegno, ma solo il cognome. Per tutti era sempre e comunque, “il figlio del grande Abdul”. Che poi è il solito macigno che opprime qualsiasi figlio di campione. Basti guardare il tennis, dove non c’è mai stato un erede famoso quanto il padre.

La linea dura di Abdul

Usman si fece notare come Usman, in un torneo nazionale, con sette wickets (eliminazioni) compreso un hat-trick (praticamente un ace), fu nominato miglior lanciatore e tre membri del Pakistan Cricket Board lo candidarono per una convocazione alla nazionale A, ma papà Abdul, da selezionatore capo, depennò il figlio dalla lista. Minacciando di rifarlo se gli altri avessero insistito con la richiesta, anche se divisa, passaporto e biglietti aerei erano già pronti. “Lo convocate solo perché è mio figlio”

Il sogno australiano

Provate a immaginarvi la situazione, provate a mettervi nei panni di Usman: “Più che arrabbiato, ero triste”. Chi non avrebbe pensato alla fuga? “Il mio sogno è diventato l’Australia”. Anche se in realtà una convocazione in nazionale è poi arrivata, e anche un risultato importante come il bronzo ai Giochi Asiatici 2010, ormai il cordone ombelicale col padre si era spezzato, e al ragazzo era scoppiata la passione per una realtà completamente diversa come quella australiana.

“Il collega Darren Berry mi ci ha portato una prima volta nel 2012, e ho giocato nel club di Adelaide, ci ho messo un po’ per trasferirmi, ma alla fine ce l’ho fatta, sono arrivato a Sydney, dov’ero già stato in trasferta due volte con la mia squadra pakistana, i Lahore Qalandars”. Senza quel cognome pesante, senza gli occhi di tutti addosso, senza dubbi, quest’anno, Qadir ha scoperto gli slanci del popolo australiano, pur senza disconoscere il proprio paese: “Amo moltissimo il Pakistan e sono molto orgoglioso delle mie origini, mi intristisce molto che i media disegnino il paese come pericoloso, come culla del terrorismo, non è corretto e non è vero. Il Pakistan è un paese pacifico e bello”.

I problemi in Pakistan

Usman ha trovato la sua strada: “Quest’anno voglio giocare alla grande, coi Perth Scorchers”. Sì, ma cos’è successo in quel buco temporale, fra il 2013 e il 2016? Diciamo che Usman ha avuto qualche problemino con gli usi e costumi del paese natale. Al suo matrimonio, sono stati arrestati quattro invitati perché non hanno rispettato il cerimoniale: lui era già andato via e i commensali hanno consumato più di un piatto e non hanno rispettato il coprifuoco delle 22 per una festa nazionale, come prescrivono le leggi di Lahore. Poi ha avuto un alterco con un poliziotto per problemi stradali, ed è stato perdonato dal funzionario perché è un “eroe nazionale”, dopo una bella prova con la maglia del Pakistan contro il Bangladesh.

Il Corano gli è venuto in aiuto. “Io ho rispettato il  volere di papà, ho studiato per quattro anni il Corano: se papà è religioso, anch’io devo essere religioso. Così ho imparato a rispettare sempre la gente e se la gente non ricambia, non sono arrabbiato, ho imparato a non reagire. Questo mi ha aiutato a gestire le sfide che ho affrontato, e sono pronto a quelle che mi attendono. Il Corano mi ha insegnato ad essere umile”.

“L’Australia è la mia casa”

Così, da buon musulmano, da figlio fedele del suo Pakistan, potrà anche giocare per la nazionale australiana: “L’anno scorso papà mi ha dato il permesso di giocare per l’Australia. Ha capito che in Pakistan c’erano troppi problemi politici e che ormai sono diventato un uomo, e sono in grado di prendere le mie decisioni. Ho imparato l’inno, amo questo paese, amo questa gente, amo questa cultura, sento di appartenere a questo posto, è qui che voglio vivere la mia vita e giocare il mio cricket. L’obiettivo è rappresentare l’Australia alla coppa del mondo del 2020”.

*articolo ripreso da agi.it

Tags: #Abdul, #bowler, #padri&figli, #UsmanQadir

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Nota sull’autore: Vincenzo Martucci

Napoletano, 34 anni alla Gazzetta dello Sport, inviato in 8 Olimpiadi, dall’85, ha seguito 86 Slam e 23 finali Davis di tennis, più 2 Ryder Cup, 2 Masters, 2 British Open e 10 open d’Italia di golf. Già telecronista per la tv svizzera Rsi; Premio Bookman Excellence.

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