Il primo agosto di 30 anni fa, in una Valtellina appena dilaniata da una terribile, tragica, alluvione, accadde una cosa che ha cambiato la pallacanestro, anche quella Nba, nell’accezione in cui oggi valutiamo e consideriamo questo sport. Nonostante tutto, contro ogni avversità, Bormio riuscì ad ospitare i campionati del mondo juniores di basket. Quella sera era in programma il big match dei gironi di qualificazione, lo scontro tra gli Stati Uniti e la Jugoslavia che, presto, avrebbe dominato anche il mondo dei grandi: Divac, Kukoc, Djordjevic, Radja… Gli americani avevano una squadra più che decente, c’era addirittura Gary Payton, che coach Larry Brown però non faceva mai giocare. La stella era Lionel Simmons che ebbe una breve carriera Nba, per colpa degli infortuni, ai Sacramento Kings. Ma l’unico che poi sarebbe stato un All Star era Larry Johnson. Nessuno avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe accaduto: in una partita dominata dalla Jugoslavia 110-95, Toni Kukoc, che avrebbe poi vinto anche tre titoli Nba coi Chicago Bulls di Michael Jordan, realizzò 37 punti con 11/12 nel tiro da tre punti. Non si era mai visto nulla del genere: il tiro da tre era stato introdotto nel basket internazionale solo dal 1984 e il suo utilizzo, seppur facilitato da una distanza che allora era di soli 6 metri e 25 dal canestro, era ancora timido e poco strategico. Non parliamone nella Nba dove era raro come il Gronchi rosa. Alla fine di quella partita, sotto una fredda e triste pioggerellina sulla via dell’albergo, Aldo Giordani, per 35 anni mitico telecronista del basket sulla Rai, mi disse: “Abbiamo assistito alla morte della pallacanestro”. Anche un grande maestro visionario, evidentemente, sbagliò la previsione per la paura condivisibile di veder ridotto uno sport tanto vario e complicato ad un semplice tiro a segno. Trent’anni dopo, il titolo Nba è andato ai Golden State Warriors e quello italiano alla Reyer Venezia grazie, due squadre che hanno puntato le loro fortune sulla filosofia delle triple. Ci sono poche cose in cui il basket Nba deve dare credito alla pallacanestro europea. Una, sono i “lunghi” che tirano addirittura da tre, genere praticamente sconosciuto negli Stati Uniti fino all’arrivo di Divac o Sabonis, l’altro, appunto, l’utilizzo sistematico delle triple, col “penetra e scarica”. Se esiste Mike D’Antoni e il suo gioco rivoluzionario, se esiste Steve Kerr che sta dominando la Nba con i Warriors, lo si deve, non in misura marginale, alle intuizioni della scuola jugoslava.
In questo trentennale dell’esplosione del tiro da tre punti, ci sono delle cifre interessanti sulle quali ragionare per comprendere l’evoluzione del basket. Ai tempi di Jugoslavia-Usa di Bormio 1987, nella Nba ogni squadra tirava una media di 4.7 tiri da tre a partita, in Italia, complice la distanza più corta di un metro, erano già 10.1, che parametrato sui 48’ americani, fa 12.3: da noi si tentavano tre volte più triple che tra i professionisti. Dieci anni dopo, nel 1997, nella Nba e in Italia si era arrivati ad una sostanziale parità: 16.8 e 16.7 tiri da tre. Salvo poi che fosse più utilizzato da noi, per via degli 8’ in meno a gara. Nel 2007, i professionisti americani mostravano di non aver modificato il loro modo di giocare rispetto al decennio precedente, fermi a 16.9 triple di media per squadra a partita, nonostante fossero già apparsi sui loro campi, e con successo, i Phoenix Suns di Mike D’Antoni. In Italia, invece, ci fu un accelerata che portò il gap tra noi e gli Stati Uniti nelle soluzioni da tre tentate oltre il livello di 20 anni prima (su 48’, sarebbe Italia 26 tiri, Nba 16.9). Nel 2017 siamo tornati alla parità: Nba 27, Italia 23.8 che sui 48’ fa 28.5. Insomma l’Europa continua a trainare e la Nba a colmare il gap. E’ molto probabile che tra 10 anni saranno gli americani davanti. E non solo perché gli Houston Rockets hanno viaggiato a 40 triple a partita quest’anno, più della Reyer, la n.1 in Italia, anche a parità di minuti.
In questa eterna rincorsa è interessante anche notare che, negli ultimi 30 anni di serie A, solo 5 squadre sono riuscite a vincere lo scudetto tirando da tre più di tutte le avversarie: Venezia 2017 (allenatore De Raffaele), Sassari 2015 (Sacchetti), Siena 2009 (Pianigiani), Fortitudo 2005 (Repesa), Treviso 1997 (D’Antoni). Per molti anni, tirare molto da fuori era ritenuta più un’arma “dei deboli” per poter competere con squadre più forti e fisicamente dotate. Se anche da noi l’imprimatur è arrivato dalla Benetton di Mike D’Antoni, da qui l’equivoco che gli americani considerano la pallacanestro di Mike “europea” mentre quando allenava qua, noi ritenevamo che il suo basket fosse “americano”, molti tecnici italiani hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo del basket come lo concepiamo oggi: Franco Marcelletti a Caserta e Verona, Frank Vitucci fin dai tempi di Imola, Cesare Pancotto a Teramo e Udine, il Recalcati azzurro e poi a Varese per concludere con Meo Sacchetti nella grande escalation di Sassari fino alla conquista del titolo.
Come finì la nostra storia? Facile, la Jugoslavia di Toni Kukoc incontrò di nuovo in finale gli Stati Uniti battendoli 86-76 e conquistando la medaglia d’oro stavolta non grazie alle triple del giovane asso croato ma dominandoli in area con Divac e Radja. Come spesso succede nei campionati giovanili, il miglior realizzatore di quella squadra favosa fu Nebojsa Ilic, guardia tiratrice, poi buon giocatore e nulla più, che affrontò le ire funeste di coach Pesic quando si procurò una distorsione alla caviglia saltando… sui trampolini elastici dei giochi per i ragazzini. Anche l’Italia che perse in semifinale con gli Stati Uniti vincendo la medaglia di bronzo, era una grande squadra: Nando Gentile, Andrea Niccolai, Riccardo Pittis, Davide Pessina, Stefano Rusconi… Trent’anni dopo è giusto ricordare che se si gioca a pallacanestro come oggi va di moda, anche nella Nba, un po’ di credito va una prestazione pazzesca, allora impensabile, di Toni Kukoc, oggi praticamente normale per Steph Curry.
Luca Chiabotti